Recensione Poker Generation (2012)

Nonostante un montaggio in stile video clip e un uso moderno delle immagini, Poker Generation di Gianluca Mingotto si lascia soffocare da una quantità ingestibile di clichè narrativi che non lasciano spazio a contenuti più giovani e attuali.

Fate il vostro gioco

Flop, turn, river e fold; queste parole all'apparenza incomprensibili sono entrate di diritto nel linguaggio quotidiano di chi ha il coraggio un po' incosciente di sedersi a un tavolo verde o di chi si limita a osservare come un fan accanito. Effetto, soprattutto, dei tempi moderni che, grazie all'universalità di internet e alla forza comunicativa della televisione, hanno trasformato il poker in una vera e propria disciplina competitiva con un numero inaspettato di appassionati e un richiamo economico da far invidia agli sport più quotati. A compiere materialmente l'evoluzione, a riscattare il gioco dalle bische fumose e dall'illegalità, in questi ultimi anni è stato il Texas Holdem che attraverso lo stile delle community card sembra aver sostituito l'azzardo con la tattica e la fortuna con la lucidità mentale. Una vera e propria filosofia sportiva che ha creato nuovi miti ed ha catturato l'attenzione di Gianluca Mingotto, consegnando nelle mani del giovane regista al suo primo lungometraggio una sceneggiatura spontanea, popolata da vincitori e perdenti in lotta con una sorte spesso capricciosa e ingrata. A questo intreccio potente e funzionante, però, gli sceneggiatori Tiziano Cavalieri e Noa Palotto hanno sovrapposto una vicenda cosìddetta intimista che, collezionando tutti i luoghi comuni del nostro cinema, tarpa le ali a un progetto potenzialmente interessante e innovativo.


Perché la Poker Generation di Mingotto non solo avrebbe avuto il pregio di portare finalmente il cinema italiano a contatto con un fenomeno contemporaneo, ma avrebbe potuto godere pienamente di un utilizzo moderno delle immagini. In questo caso usare il condizionale è inevitabile, visto che, nonostante un montaggio in stile video clip in cui musica e ritmo cadenzano con velocità tutta la seconda parte del film, il progetto si è lasciato inghiottire completamente da una quantità ingestibile di cliché. E' così che l'avventura di Tony (Andrea Montovoli) e Filo ( Piero Cardano), due fratelli siciliani sbarcati in continente per guadagnare con il poker i soldi necessari a curare la sorella in fin di vita, diventa l'elemento centrale della narrazione. Spavaldo e arrogante il primo quanto silenzioso e riflessivo il secondo, i ragazzi vengono introdotti nei salotti della Milano bene in cui scommettere non è reato ma un piacevole vizio. Filo, grazie soprattutto ad una leggera forma di autismo e alla sua memoria eccezionale, riesce a collezionare i primi successi, mentre Tony, stordito dall'alcol e dalle donne, si muove frenetico senza una meta. A unire nuovamente le loro strade saranno il tavolo verde e la consapevolezza di un'appartenenza familiare e geografica.

Volendo sorvolare su di un intreccio prevedibile e un Andrea Montovoli ossessionato dalla rappresentazione del macho latino a metà strada tra Tony Manero eIl padrino, è impossibile non rimanere negativamente stupiti di fronte a contenuti che di giovane e attuale non hanno proprio nulla. A primeggiare su tutto è ancora una volta l'universo italiano diviso culturalmente tra sud e nord. Così, se la Sicilia si conferma culla delle tradizioni famigliari, nonostante un padre scommettitore e fallito, Milano non può che essere vista come il luogo delle tentazioni dove perdere contatto con se stessi e le proprie radici. Viziata, eccessiva e spregiudicata, per il trio Mingotto/Cavalieri/Palotto la città rappresenta una sorta di teatro degli orrori gestito da una classe dominante ricca e annoiata. E mentre i pochi privilegiati traggano il loro guadagno da un'umanità che si da battaglia intorno al tavolo da gioco, una ragazza madre, naturalmente sexy e di buon cuore, è costretta a divedersi tra il lavoro mattutino in un bar e quello serale in un locale di pole dance. A venire in suo aiuto, nemmeno a dirlo, è l'eroe fragile e sensibile che, dopo essersi liberato dalla presenza ingombrante del fratello, trova conferma del suo valore attraverso la nobile arte del poker texano. Ecco, dunque, servito il dramma italiano con tanto di madre votata al sacrificio e piegata da una vita di umiliazioni. Peccato, però, che pathos, commozione o adrenalina siano completamente assenti da una narrazione che rifiuta qualsiasi atto di coraggio in favore di un finale politicamente corretto con tanto di abbraccio pacificatore e orgoglio paterno. Perche si sa, tutto è bene ciò che finisce bene, soprattutto in famiglia.

Movieplayer.it

2.0/5