L'iter narrativo di Fargo ancora oggi stupisce per l'incredibile capacità di coniugare personaggi ed eventi assolutamente familiari, non tanto più fantasiosi dalla reale cronaca nera, con un modulo espressivo, dialoghi e un'atmosfera in cui al dramma, alla violenza, sovente si accompagna un dark humor ed un'imprevedibilità totali. Spesso ci si sente dire che il cinema il più delle volte ha solo due strade: O concentrarsi sulla storia o privilegiare i personaggi. I fratelli Coen, con questo film, mostrarono che si potevano percorrere entrambe queste vie, che non per forza bisognava mettere da parte o rinunciare ad una delle due, lasciando che lo stile, il modo in cui si narra una storia, rimanesse centrale quanto la qualità della storia stessa.
Un viaggio a metà tra fantasia e realtà
Fargo ha una delle migliori sceneggiature mai viste negli anni 90, un concentrato di cattiveria, miseria umana, cupidigia che ancora oggi lascia letteralmente di stucco. Jerry Lundegaard (William H. Macy), rivenditore di auto frustrato e fallito, dà il via ad una concatenazione di eventi che ancora oggi potremmo tranquillamente vedere come la dimostrazione suprema del perché fare i criminali è una cosa maledettamente seria. Ansioso di avere un bel gruzzolo dal suocero Wade (Harve Presnell), che giustamente lo stima meno di nulla, ha la fantastica idea di far rapire la moglie da due balordi, a cui Steve Buscemi e Peter Stormare donano una caotica crudeltà. Al rapimento dovrebbe seguire un comodo riscatto con cui Jerry potrà ripianare i debiti e prendersi una rivincita sulla vita. Da quel momento in poi, i fratelli Coen mettono in scena una sorta di teatro dell'assurdo dipinto con il sangue, a cui però conferiscono un tono quasi divertito, che spesso pesca a piene mani dalla dark comedy. Tra lande desolate, tra neve e sangue, troviamo il buco nero in cui è affogato il sogno americano di piccoli borghesi, scarti del proletariato privati dalla vita di ogni pietà, ogni empatia. Anche per questo, in ultima analisi, di comico questo film ancora oggi ha ben poco...
Mettendo in scena la banalità del male
Ma davvero è possibile etichettare Fargo o restringerlo in una definizione di genere? Seguendo il cammino della determinata detective Marge Gunderson, che ha permesso a Frances McDormand di fissarsi nel firmamento cinematografico, più si va avanti con Fargo, più appare chiaro che è definito dalla sua finalità ultima: mostrare la banalità del male. Il vero protagonista del film infatti è la barbarie della provincia americana, di quella fetta di paese che Hollywood cerca di nascondere, di un'umanità repressa e che vuole avere ciò che l'America da sempre promette a furbi e opportunisti. Non importa a che prezzo e con che mezzo.
Non è poi un caso che i Coen decidano di ambientare il tutto negli anni 80, il decennio dell'arrivismo e dell'avidità per eccellenza, eppure, genialmente, scelgono come palcoscenico non la gigantesca Minneapolis, quanto quella Fargo che è situata in uno degli Stati meno attraenti e desiderati: Il North Dakota.
Ed è lì, dove il sole non scalda né la terra né tantomeno i cuori degli abitanti, che teatro e verità si mischiano, indossano l'una il volto dell'altra. "Le persone e gli eventi rappresentati in questa produzione sono fittizi. Nessuna somiglianza con persone reali, vive o decedute, è intenzionale o dovrebbe essere desunta", dicono i titoli di coda, seccando la risata nelle nostre gole.
Ma, ed ecco spiegato l'arcano, in realtà ciò che vediamo è fittizio nella confezione dei dettagli, ma tremendamente veritiero nella sua dimensione storica e antropologica. Un falso specchio? No uno specchio a due facce in cui realismo e fantasia sono tutt'uno.
Dal Drugo a Llewyn Davis: gli antieroi strampalati dei Coen - parte 1
Uno nuovo Sceriffo in città
Tra tanti personaggi femminili che il cinema ci ha regalato negli ultimi decenni, pochi sono più importanti di Marge Gunderson. Una poliziotta piccola, resa anche più goffa dal pancione da donna incinta che si porta appresso, legata all'affettuoso e un po' stralunato Norm (John Carroll Lynch), ben distante dal modello anche attuale del female power in cui sex appeal e atleticità cercano di colmare il supposto gap fisico col mondo maschile, in modo talvolta fin troppo cringe.
Marge è semplicemente una donna intelligente, una poliziotta coscienziosa, acuta, che briciola dopo briciola, trova la verità. Nel farlo, raccoglie il testimone dello sceriffo onesto, dell'eroe della porta accanto che aveva fatto la fortuna di divi come James Stewart o Gregory Peck, e come loro lo fa in quello che per molti aspetti è anche un western. Ci sono gli indiani, i criminali, la vittima e la civiltà a singhiozzi, poi c'è lei, quasi aliena per la sua normalità, in mezzo a gente che uccide per un niente, che trova normale far a pezzi i corpi in una cippatrice. Eppure no, Fargo non è completamente neppure un western, non solo almeno, quanto la messa in scena del mix di tutto il peggio che si può trovare nella nostra società, una sintesi dell'homo homini lupus in una natura ostile, potente e che assiste quasi annoiata ad una sequenza di omicidi, profanazioni e peccati capitali. Oggi, a 25 anni di distanza da questo piccolo capolavoro della settima arte, che dette nuova linfa ad un'autorialità che ad Hollywood rischiava di venire schiacciata dai blockbuster, bisogna anche ammettere che fu un film incredibilmente politico.
Dal Drugo a Llewyn Davis: gli antieroi strampalati dei Coen - parte 2
L'illogicità della crudeltà umana
Fargo, grande successo di pubblico e critica, pluripremiato, anche per questo non solo è invecchiato benissimo, ma rimane uno spaccato straordinario di un mondo che è bene e male da sempre, dove muore l'epica a stelle e strisce sull'intraprendenza che ha fatto grande il "Meraviglioso Paese". La famiglia, il focolare domestico, la tanto decantata libertà e la "legge della Frontiera", i pilastri della terra degli uomini liberi che non ne vuole sapere di cambiare, sono qui messi alla berlina, denudati di fronte alla violenza della storia.
Il fatto che tutto avvenga con una modalità espressiva quasi tenue, lenta, profondamente descrittiva, volendo semi-documentaristica, è una sorta di anestesia con cui i Coen evitano di far soffrire eccessivamente lo spettatore. Allo stesso tempo, è utile per non rendere l'insieme simile ad un action o a uno dei tanti film in cui la sospensione della credulità e del realismo, l'adrenalina data al pubblico, sortiscono l'effetto di anestetizzare la coscienza dello spettatore. Non è ciò che volevano, non è ciò a cui il loro cinema ha mai voluto tendere neppure nei suoi risultati più istrionici, fantasiosi o grotteschi. A tanti anni di distanza, il lascito finale, la malinconia, la tristezza per la miseria umana, per la crudeltà gratuita, rimane potente ed attualissima. Oggi come allora, ogni volta che leggiamo di crimini allucinanti ed immotivati, ripetiamo infatti dentro di noi la stessa sconsolata domanda che Marge nel finale rivolge al barbaro e feroce Gaear Grimsrud di Peter Stormare: Per cosa tutto questo? Per un po' di soldi? Il male a volte semplicemente non può essere compreso, può essere solo combattuto.
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