Recensione Anche libero va bene (2005)

Non ci sono colpi di genio nel film di Rossi Stuart, ma è un film sincero, spigoloso, non indulgente, emblematico di un certo malessere della nostra società, e, soprattutto, costruito su un perfetto equilibrio di toni che ci evita quei fastidiosi scivoloni nel dolore melodrammatico autocompiaciuto.

Fame di carezze

Anche libero va bene. Da un titolo del genere sarebbe lecito aspettarsi una commedia disimpegnata, una pellicola leggera da consumare come uno snack a merenda. Niente di più sbagliato. Il film che segna il debutto di Kim Rossi Stuart dietro la macchina da presa è, al contrario, una pagina dolorosa, scarabocchiata, di una storia di affetti disordinati, un'opera prima minimalista e sofferta, fatta di silenzi e scatti rabbiosi, di implosioni e autentici squarci d'amore. Un padre brontolone e nichilista, che nasconde tenerezza e sogni mai domi dietro la barba lunga, è costretto ad allevare due figli preadolescenti da solo, perché sua moglie l'ha abbandonato per qualcun altro. Un racconto che ruota attorno ad un'assenza (quella di una madre scriteriata, impegnata a correre dietro i pantaloni di uomini facoltosi piuttosto che assumersi le proprie responsabilità), si srotola nel vagabondare silenzioso di un bambino alla ricerca di un'identità in quel limbo che dà sull'adolescenza, e sfocia in una potentissima storia d'amore tra padre e figlio, così toccante ed autentica come non se ne vedevano, forse, dai tempi di Ladri di biciclette. Come il rapporto tra Antonio e il piccolo Bruno del capolavoro di Vittorio De Sica, anche quello tra Renato (lo stesso Rossi Stuart) e Tommi (Alessandro Morace) è fatto di grande complicità, tacite intese e schiaffi obbligati, immerso nella ricerca di un qualcosa di definito, ma irraggiungibile: se i personaggi di De Sica si muovevano ansiosi nella Roma post-dittatura, alla ricerca della bicicletta-simbolo rubata, quelli di Rossi Stuart si aggirano in una casa disordinata della Roma di oggi, alla ricerca delle carezze mancate di una donna che si è lasciata rubare, ma che in fondo entrambi continuano ad amare oltre ogni moto d'orgoglio. Alla fine di entrambi i film, i padri vengono salvati dai propri figli, Antonio preso per mano dal suo piccolo, tirato fuori dallo sconforto e da una folla inferocita dopo un gesto disperato, Renato svegliato nella notte dal sussurro di Tommi, destato da una solitudine e un'insoddisfazione pronte ad annientare.

Ma Ladri di biciclette era un film straordinario, probabilmente il più bello della storia del cinema, che raccontava con tocco indimenticabile l'intera società italiana uscita distrutta dalla guerra, mentre Anche libero va bene è "solo" un buon film italiano, tutto ripiegato nell'intimità di questa famiglia italiana del XXI secolo, ed in particolare di un bambino normale a cui è stata negata parte di quella felicità che nell'infanzia si alimenta soprattutto dell'affetto nei palmi delle mani dei genitori. Non ci sono colpi di genio nel film di Rossi Stuart, la confezione è paratelevisiva, i temi quelli soliti di certo cinema italiano che strizza l'occhio alla fiction (la crisi della famiglia, i problemi economici, le sfide della crescita) e fa i conti con il reality (la quotidianità spiata anche nei suoi momenti più banali, le scoregge e le bestemmie esibite), i dialoghi naturalmente puerili e la regia corretta, anche se piuttosto trattenuta, ma è un film sincero, spigoloso, non indulgente, emblematico di un certo malessere della nostra società, e, soprattutto, costruito su un perfetto equilibrio di toni che ci evita quei fastidiosi scivoloni nel dolore melodrammatico autocompiaciuto, negli isterismi di fabbrica degli attori nostrani più quotati, in quei ricatti emotivi impliciti in tutti i film di bambini, ma ci travolge di un'emozione autentica. Grande merito nel raggiungimento di quest'equilibrio sta nelle formidabili interpretazioni dei protagonisti, diretti con una bravura encomiabile da Rossi Stuart che, come attore, è sempre (il) più bravo, affiancato qui da Barbora Bobulova, ormai una certezza del nostro cinema, perfettamente calata nel complesso ruolo della madre egoista, e da Marta Nobili, la figlia femmina detestabile, con tanto di codini e apparecchio ai denti, classica lolita in precoce esplosione ormonale che tormenta il povero fratellino. Ma il vero fenomeno è proprio Alessandro Morace, talentuoso debuttante di una intensità e una bravura abbagliante, per il quale ci si augura un futuro luminosissimo.

Il personaggio di Morace è l'anima del film, tutto viene visto attraverso i suoi occhi, raccontato dai suoi silenzi. La regia di Rossi Stuart lo cerca continuamente, lo spia, lo avvolge, gli entra dentro, e lui si fa trovare ogni volta puntuale, con quegli occhi spalancati che rivelano tutto, al di là di ogni parola superflua. Tommi cerca sempre l'alto, fa di un tetto senza protezioni il suo rifugio segreto dal quale spiare il mondo via binocolo, gioca continuamente col vuoto, sfidandolo con pericolosi salti. In fondo, il senso di vertigine non gli fa paura, non a lui che sta crescendo vaccinato contro i vuoti, le mancanze, le carenze. E' un bambino che deve maturare in fretta, che sta imparando troppo presto a non lasciarsi incantare dalle illusioni. Quando la madre torna, inginocchiandosi di fronte a Renato perché sia perdonata e riaccolta in casa, Tommi non le crede, sa che un giorno o l'altro andrà via, li abbandonerà di nuovo senza dir nulla. Nel suo percorso di crescita ci sono tutte le tappe obbligate, comuni ai bambini della sua età: le prime cotte, vissute tra improvvisi slanci e imbarazzati passi indietro, le schermaglie con i coetanei, la scoperta dell'amicizia, le incomprensioni con i genitori e le passioni che si vanno delineando. Renato prepara per lui sogni preconfezionati (la scuola di nuoto imposta, a discapito delle classiche aspirazioni calcistiche del figlio), detta regole alzando la voce, fa la guerra col mondo incurante dei figli che lo guardano e lo ascoltano, ma in fondo è un padre amorevole, con tutti i dubbi e le debolezze di un uomo solo. Il suo atteggiamento virile, rabbioso, violento, sia dal punto di vista fisico (l'anta dell'armadio distrutta a suon di pugni) che, soprattutto, verbale, è una diretta conseguenza delle sue insoddisfazioni, amorose (una moglie che l'ha abbandonato già più volte per via di continui pruriti nelle parti intime) e lavorative (è un cameraman che non riesce mai a fare accogliere, dal regista di turno, i propri suggerimenti, senza rendersi conto che è la sua stessa vita a soffrire di una debole regia), e del suo sentimento di inadeguatezza come unico genitore di riferimento.

Buona parte del film è giocata sulla porta di casa, elemento fondamentale della storia, dietro la quale non si sa mai con certezza cosa (o meglio chi) c'è, luogo di confine tra l'amore e il ripudio, tra il nido e il mondo esterno, l'ignoto. La porta della casa di Tommi non si apre quasi mai per accogliere, ma per cacciare o abbandonare, per frantumare le seconde occasioni, i sogni di cristallo. Splendida la scena in cui il piccolo protagonista, dopo essere stato sbattuto fuori casa dal padre in seguito ad una sfuriata, torna lì nella notte, non trova più le chiavi nascoste fuori, sistemate sotto il solito vaso, e si lancia in una disperata lotta contro quelle mura e quella porta chiusa per rientrare in casa e rifugiarsi tra le braccia di quell'uomo barbuto che tanto ama. Seppur con qualche buco di troppo e qualche pecca nella definizione di certi personaggi, la sceneggiatura del film, scritta da Rossi Stuart insieme ad altri tre collaboratori, ha una sua solidità, si muove tra la calda semplicità delle situazioni più ordinarie e il fortissimo impatto emotivo delle altre. Alla costruzione di atmosfere dall'efficacia così forte contribuiscono le solite ottime musiche della Banda Osiris, gli Joe Hisaishi di casa nostra, in grado di sottolineare ogni passaggio del film con una delicatezza e un'intensità senza paragoni. Rossi Stuart come regista non avrà un talento naturale, cede al fascino dell'immancabile sequenza onirica (che ricorda molto da vicino l'incubo di Pricò ne I bambini ci guardano, altro grande film di De Sica, altro amaro ritratto di un bambino vittima del fallimento coniugale dei propri genitori) e della soggettiva ad effetto (quella di Tommi in piscina, impegnato nella gara per vincere l'amore condizionato del padre), ma il suo stile è, nel complesso, asciutto e votato a cogliere le emozioni dei personaggi, con inquadrature fisse ed efficaci primi piani. In una scena del film, l'attore romano indossa un'imbracatura per la steady-cam che sembra l'armatura di un guerriero e gli conferisce una solennità che riempie di orgoglio i propri figli. E di orgoglio ci riempiamo anche noi spettatori, nella speranza che un film italiano di qualità possa finalmente vincere la battaglia del botteghino.