Recensione Fame - Saranno famosi (2009)

Il coreografo Kevin Tancharoen riporta al cinema 'Fame', la favola dei giovani che volevano "vivere per sempre" coltivando le loro impressionanti passioni, realizzando i loro sogni di gloria e calcando il palco a ritmo di musica.

Extra-ordinary people

"New York, New York", cantava Liza Minelli e la città delle luci della ribalta, finiva per essere immortalata da Martin Scorsese tra celebrazioni di talenti già mitizzati, questioni insolute sullo show-biz, lo swing e le mirabolanti potenzialità della performance musicale sul grande schermo. Solo tre anni più tardi, nel 1980, tentava una strada simile Alan Parker, ma stavolta a quel talento storico veniva sostituita la freschezza di giovani promesse, l'accademia prendeva il posto degli affari, la musica iniziava a pompare senza tanta disciplina e quelle potenzialità dell'arte, nuovamente concretizzate, venivano rinnovate nel segno dei giovani di Saranno famosi. Intrattenimento genuino, drammi sentimentali, commistioni interraziali e intrasociali, una colonna sonora e un tema musicale indimenticabili e l'indelebile ripercussione della profezia di Andy Warhol del lontano '68 sulla popolarità. Quel sogno di fama non poteva che essere ricordato, a distanza di quasi trent'anni, ai giorni nostri, nell'epoca delle rincorse al successo, ai sogni e alle ambizioni pagate col sudore e guadagnate col sacrificio.

Un gruppo di giovani artisti (attori, cantanti, musicisti, ballerini) supera le affollate audizioni di una della più prestigiose scuole americane: la School of Performing Arts di New York. La loro passione viene messa a dura prova nel corso degli anni: per raggiungere l'ambito successo ed esibire il proprio talento ognuno dovrà confrontarsi con una realtà difficile e quasi ostile. Denise è una pianista, ma sogna di cantare, Jenny invece è un'attrice troppo timida e ingenua, Malik si esercita nella recitazione e si diletta con il rap nero e pieno di rabbia, Kevin non sa tirar fuori le sue doti di ballerino, Neil vuole diventare regista ma il mondo del business lo placca. Riusciranno i nostri straordinari eroi a librarsi in volo o la realtà gli tapperà le ali?

Diretto dal coreografo Kevin Tancharoen, qui al suo esordio alla regia, il nuovo Fame - Saranno famosi ripercorre le storie dei suoi protagonisti, seguendone il percorso artistico più che quello psicologico (ben calcato invece dall'amarezza di Parker nell'originale), rispecchiando la struttura dell'originale, con la divisione in cinque capitoli, e ribadendo il fil rouge che accomuna la sua coralità: la fama, appunto. Più che un remake la pellicola appare un remix cinematografico ben congegnato che fa leva su una moderna musicalità pop di presa sicura sul pubblico giovane, e giovanile, e sulle coreografie architettate con un ritmo assolutamente travolgente.

Se l'incipit del film con certi movimenti della macchina crudi, ravvicinati, instabili potrebbe far pensare a uno stile documentaristico, che ricorda quello che in The company (Robert Altman, 2003) ci sospingeva nel vortice di un mondo quasi disumanizzato, Tancharoen presto abbandona il taglio iperrealistico e lascia lo sfondo per concentrarsi sulle presenze individuali, immergendoci nei singoli universi dei personaggi e dei loro campi artistici. La sensazione è che lo spettatore si ritrovi ad assistere allo srotolamento delle loro fragili esistenze senza però che la sua sensibilità ne venga mai intaccata profondamente: i numeri, le esibizioni, gli spettacoli del film, che costituiscono il punto forte e di maggiore impatto visivo, finiscono per risucchiare nei loro volumi alti e nei colori sgargianti dei loro costumi (vedi la baracconesca sequenza pseudocarnevalesca) gli snodi narrativi con più alto potenziale emozionale. Lo show va avanti quasi rinnegando i personaggi stessi: scorrono quattro anni tra le mura della scuola, si restringe il numero degli allievi, si rafforzano i rapporti sentimentali e d'amicizia, migliorano le competenze eppure l'impressione è che non sia cambiato nulla dal prologo. Le psicologie dei protagonisti restano abbozzate

e l'attenzione s'infervora intorno ai volteggi - coreografati dalla brava Marguerite Derricks - piuttosto che ai girotondi umani: come l'immagine iniziale, interstizio tra il titolo e l'ouverture, preannunciava, si creaun cortocircuito, tra il palco, spazio dell'immaginario e del sogno, e quel gap in cui invece risiede la realtà, asciutta e materica.

Restano i riusciti tentativi di ammodernamento dello scenario spettacolare con gli ammiccanti riferimenti a Lauryn Hill e a Wes Anderson, con un ritmo musicale avvincente e frenetico, con la carica canora esplosiva di rivelazioni come l'impressionante Naturi Naughton, nel ruolo di Denise, con l'exploit finale che riesce a combinare la vivacità pirotecnica del musical di ultima generazione al divertissement semplice e garbato di film come Sister Act - Una svitata in abito da suora.