Extra-ordinary people
"New York, New York", cantava Liza Minelli e la città delle luci della ribalta, finiva per essere immortalata da Martin Scorsese tra celebrazioni di talenti già mitizzati, questioni insolute sullo show-biz, lo swing e le mirabolanti potenzialità della performance musicale sul grande schermo. Solo tre anni più tardi, nel 1980, tentava una strada simile Alan Parker, ma stavolta a quel talento storico veniva sostituita la freschezza di giovani promesse, l'accademia prendeva il posto degli affari, la musica iniziava a pompare senza tanta disciplina e quelle potenzialità dell'arte, nuovamente concretizzate, venivano rinnovate nel segno dei giovani di Saranno famosi. Intrattenimento genuino, drammi sentimentali, commistioni interraziali e intrasociali, una colonna sonora e un tema musicale indimenticabili e l'indelebile ripercussione della profezia di Andy Warhol del lontano '68 sulla popolarità. Quel sogno di fama non poteva che essere ricordato, a distanza di quasi trent'anni, ai giorni nostri, nell'epoca delle rincorse al successo, ai sogni e alle ambizioni pagate col sudore e guadagnate col sacrificio.
Un gruppo di giovani artisti (attori, cantanti, musicisti, ballerini) supera le affollate audizioni di una della più prestigiose scuole americane: la School of Performing Arts di New York. La loro passione viene messa a dura prova nel corso degli anni: per raggiungere l'ambito successo ed esibire il proprio talento ognuno dovrà confrontarsi con una realtà difficile e quasi ostile. Denise è una pianista, ma sogna di cantare, Jenny invece è un'attrice troppo timida e ingenua, Malik si esercita nella recitazione e si diletta con il rap nero e pieno di rabbia, Kevin non sa tirar fuori le sue doti di ballerino, Neil vuole diventare regista ma il mondo del business lo placca. Riusciranno i nostri straordinari eroi a librarsi in volo o la realtà gli tapperà le ali?

Se l'incipit del film con certi movimenti della macchina crudi, ravvicinati, instabili potrebbe far pensare a uno stile documentaristico, che ricorda quello che in The company (Robert Altman, 2003) ci sospingeva nel vortice di un mondo quasi disumanizzato, Tancharoen presto abbandona il taglio iperrealistico e lascia lo sfondo per concentrarsi sulle presenze individuali, immergendoci nei singoli universi dei personaggi e dei loro campi artistici. La sensazione è che lo spettatore si ritrovi ad assistere allo srotolamento delle loro fragili esistenze senza però che la sua sensibilità ne venga mai intaccata profondamente: i numeri, le esibizioni, gli spettacoli del film, che costituiscono il punto forte e di maggiore impatto visivo, finiscono per risucchiare nei loro volumi alti e nei colori sgargianti dei loro costumi (vedi la baracconesca sequenza pseudocarnevalesca) gli snodi narrativi con più alto potenziale emozionale. Lo show va avanti quasi rinnegando i personaggi stessi: scorrono quattro anni tra le mura della scuola, si restringe il numero degli allievi, si rafforzano i rapporti sentimentali e d'amicizia, migliorano le competenze eppure l'impressione è che non sia cambiato nulla dal prologo. Le psicologie dei protagonisti restano abbozzate

Restano i riusciti tentativi di ammodernamento dello scenario spettacolare con gli ammiccanti riferimenti a Lauryn Hill e a Wes Anderson, con un ritmo musicale avvincente e frenetico, con la carica canora esplosiva di rivelazioni come l'impressionante Naturi Naughton, nel ruolo di Denise, con l'exploit finale che riesce a combinare la vivacità pirotecnica del musical di ultima generazione al divertissement semplice e garbato di film come Sister Act - Una svitata in abito da suora.