C'era una volta un bambino.
Aveva all'incirca dieci anni, era escluso dai giochi dei grandi e guardava al cielo e l'ignoto con un misto di fascinazione e timori. Non aveva molti amici, non tanto per un rifiuto ad accoglierne nella propria vita, quanto per una difficoltà a trovarne, almeno fino a quando una buffa figura aliena si è imposta con prepotenza alla sua quotidianità, creando un legame indissolubile ed eterno.
Quel bambino si chiamava Antonio ed oggi, più o meno 35 anni dopo aver conosciuto E.T., sta scrivendo le righe che leggete.
Chi scrive ha infatti avuto una fortuna incredibile, una delle sporadiche della sua vita: ha visto E.T. L'Extraterrestre, il piccolo capolavoro di Steven Spielberg, nel miglior momento possibile nella vita di un bambino, ovvero da quasi coetaneo del suo giovane protagonista umano, quell'Elliott che nel tozzo alieno progettato da Carlo Rambaldi trovava un compagno prezioso quanto unico, e che anche per i piccoli spettatori più solitari e sognatori, di 35 anni fa così come dei decenni a seguire, poteva diventare un esotico amico immaginario.
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Il mio amico E.T.
Questa identificazione è un processo più che spontaneo per un film così personale e intimo, pur nella sua sfrenata fantasia: E.T. non è solo nostro amico, ma dello stesso Spielberg, che lo portava dentro di sé da tempo, da prima di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Nel piccolo alieno abbandonato, il regista ha messo sé stesso, la solitudine e il bisogno di affetto, il divorzio dei genitori e in generale una visione del mondo e del cinema che prendeva sempre più forma.
Una spinta personale che ha trovato la sua forma perfetta nella creatura progettata da Rambaldi, che non cerca la via facile del look rassicurante in tutto e per tutto, e segue una strada più difficile ma vincente: quella della minaccia.
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L'apertura all'ignoto
L'extra-terrestre di Spielberg non è infatti né carino né aggraziato, si muove a fatica, è goffo e, potremmo dire, deforme. Alieno. Eppure Elliott così come lo spettatore riescono a superare questa iniziale diffidenza, superando le apparenze, per comprendere e stringere un legame che va al di là di razze e confini. È uno dei messaggi chiave del film, quello dell'apertura verso l'ignoto, della comprensione e accettazione del prossimo, di legami che vanno oltre le differenze, che prosegue il discorso impostato con Incontri ravvicinati ma anticipa, in chiave fantastica, temi più delicati e concreti che il regista avrebbe affrontato negli anni a seguire, da Il colore viola in avanti. Un'apertura alla quale, ci sembra suggerire Spielberg, si è più inclini in giovane età, con l'animo puro e non ancora ferito dagli ostacoli della vita. Quando l'immaginazione è ancora una spinta pura e senza controllo.
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La libertà della fantasia
Quello di E.T. è un mondo a misura di bambino, in cui l'adulto è la vera minaccia, pronto a intervenire con la sua arida e chiassosa praticità per affossare gli slanci di fantasia della gioventù. L'adulto è un bambino che ha rinunciato a sognare, privato della sua immaginazione e intrappolato nella sua sterile quotidianità. Una realtà che a Spielberg sta stretta, è chiaro, dalla quale il goffo alieno rappresenta una doppia e spiazzante via di fuga: per noi spettatori, capaci di emozionarci per la struggente storia di una fantastica amicizia interstellare; per Elliott e i suoi amici, a bordo di quelle biciclette che spiccano il volo e viaggiano libere verso una fantasia che non si può tenere a bada. Lasciandoci in lacrime ad ogni nuova visione ancora oggi, a 35 anni dal suo arrivo in sala.
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