Recensione Come l'ombra (2006)

La regista ci indirizza lo sguardo nelle parentesi di una Milano da inghiottire, una città statica abitata da ombre: donne sole, in perenne attesa dietro le finestre chiuse delle proprie case, malinconicamente vuote di respiri che non siano il proprio.

Eclissi di ombre

Sono le solitudini che si incontrano, si incrociano e si perdono le protagoniste di Come l'ombra di Marina Spada, interessante opera italiana, finalmente sorprendente per la qualità di forma e contenuto, che si è fatta notare alle Giornate degli autori della Mostra del cinema di Venezia dello scorso anno e che ha collezionato importanti riconoscimenti nei festival di tutto il mondo prima dell'agognata distribuzione italiana. Sostenuta da una buona sceneggiatura, in forte odore Antonioni, scritta per lei da un esordiente, il produttore Daniele Maggioni, la regista ci indirizza lo sguardo nelle parentesi di una Milano da inghiottire, una città statica abitata da ombre che possono arrivare solamente a sfiorarsi, quelle di donne sole, in perenne attesa dietro le finestre chiuse delle proprie case, malinconicamente vuote di respiri che non siano il proprio. Claudia, la donna al centro (o sarebbe meglio dire all'angolo) di Come l'ombra, è un'anima che è diventata tutt'una col grigiore che la circonda, una quotidianità fatta di un lavoro che ben sintetizza un bisogno d'altrove e un'abitazione riempita unicamente dal rumore delle spugne passate su mobili e specchi.

E la solitudine della protagonista va ad incastrarsi in quel vuoto fagocitante della metropoli milanese, certamente diversa dall'immagine caotica che di essa abbiamo, qui presentata come città dell'alienazione, deserto che si riempie di ombre senza contorni, di corpi estranei che la occupano senza riuscire mai a possederla. Incisive le intuizioni di Gabriele Basilico che fotografa con rigore una Milano mai così immobile, declassando lo sguardo a luoghi poco riconoscibili, ad angoli nascosti, quelli del tempo che muore e dello spazio che reinventano continuamente gli immigrati. In questi luoghi l'altro diventa inconoscibile e anche la distanza di un passo finisce col risultare incolmabile. Dialoghi scarni e inevitabilmente insignificanti (qualcuno direbbe però naturali), ma immagini e silenzi densi di significato disegnano geometricamente il film di Marina Spada, il secondo dopo l'invisibile Forza Cani del 2002, diretto con grande maturità, spezzando abilmente i corpi nel nitore della tana abitativa e nell'impalpabilità dei non-luoghi metropolitani.

Come l'ombra si gode tutte le gioie e i dolori di uno sceneggiatore dotato, ma alle prime armi. Gli snodi narrativi non sono mai scontati, e quando il film sembra imboccare una direzione definita arriva istantaneo un cambio di rotta che porta gli eventi in territori imprevedibili. Così, subito dopo aver gettato le basi per raccontare la più classica delle storie d'amore tra due solitudini che si incontrano, Maggioni inserisce un terzo, misterioso personaggio che rivoluziona la storia, oscurando o illuminando le zone d'ombra col fascino dell'ignoto e facendo scoprire alla protagonista il gusto del condividere la quotidianità con un'altra persona. Da quel momento in poi, alla lentezza e al muto movimento dei corpi negli spazi deserti della vita, si aggiunge una nuova voce e una tensione lieve, ma crescente, che lascia immaginare uno sbocco tragico degli eventi. Ma anche in quest'occasione lo sceneggiatore ci sorprende e all'esibizione fracassona della tragedia preferisce la sospensione di un finale aperto, anche se così facendo lascia irrisolti nodi importanti e la sensazione, in fondo, di un'idea che si è ormai esaurita. Tocca a noi allora riempire i coni d'ombra ed interpretare i sottintesi di quella che alla fine si rivela per lo spettatore una visione estremamente stimolante. Ad averne film così.