A trentadue anni, è uno dei volti più riconoscibili del cinema francofono di qualità: Gaspard Ulliel è stato scelto da Xavier Dolan per incarnare il protagonista del suo È solo la fine del mondo, tesissimo dramma familiare che vede Ulliel condividere la scena con colleghi del prestigio di Marion Cotillard, Léa Seydoux, Vincent Cassel, Nathalie Baye.
Il film, tratto dall'omonimo dramma di Jean-Luc Lagarce, è stato insignito del Gran Premio della giuria all'ultimo Festival di Cannes, e debutterà nelle sale italiane il prossimo 7 dicembre.
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La scelta di Louis
Raccontaci qualcosa del personaggio che interpreti nel film. Gaspard Ulliel: Louis è un giovane scrittore che torna a trovare la sua famiglia che non vede da dodici anni per comunicare loro una notizia importante.
Cosa trova Louis quando torna a casa? Quello che adoro è che sia nella pièce, sia nel film, il dramma non si evolve mai in qualcosa di completo. È come se il film fosse tenuto insieme da un movimento frenato, una drammaticità che non esplode mai. Dunque la storia è abbastanza statica, tutto accade ad un livello che non corrisponde alle azioni, ma al linguaggio. Tutto passa attraverso le parole ed il linguaggio. Ma poi tutti quei dialoghi funzionano più come via di fuga per i personaggi, un modo di evitare il punto, una maschera. Tutto il film è centrato sull'incomunicabilità fra i personaggi, ma tutti sono attraversati dalla paura del linguaggio e forse tutti parlano tanto proprio perché temono quello che Louis ha da dire loro. Non gli lasciano mai lo spazio per parlare.
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I dialoghi e il non detto
Il dialogo nel film è costante, ma c'è molto delle relazioni fra i personaggi che non viene raccontato. Cosa significa per un attore recitare in un film in cui la maggior parte della vicenda trova spazio solo nel sottotesto?
Tutte le cose che contano restano non dette. Tutti si concentrano sul pollo a tavola o sul tovagliolo, ma non si dicono mai nulla di sincero. C'è questa forte incapacità di esprimere veramente quello che hanno davvero in testa, tipica della scrittura di Lagarce. Il punto centrale è quello che in francese chiamiamo 'Crise du language' - la crisi del linguaggio. È proprio questo che ha reso questa pièce così interessante da adattare in un film, perché Xavier è in grado di esprimere tutto quel non detto attraverso il linguaggio cinematografico. Questo è ciò che fa e lo fa in modo brillante. Attraverso il suo modo di dirigere il film mette al centro della scena e focalizza l'attenzione su ciò che i personaggi stanno cercando di dirsi.
Il personaggio di Louis è intrecciato chiaramente alle vicende dello scrittore della piece. Questo ha cambiato il tuo approccio al personaggio?
C'è tanto una parte dello scrittore nel personaggio, quanto una del regista: Louis è un artista completo e soddisfatto che torna a casa.
Per me è stato interessante pensare a quest'uomo come ad uno scrittore, perché lavora sostanzialmente con le parole, anche se non si tratta di parole pronunciate, non si tratta di linguaggio puro. In quanto artista, è in costante ascolto, osservazione, assorbimento di elementi che possa utilizzare nella prossima pièce.
Viene detto in una battuta del film, che la sua ispirazione, il materiale da cui origina tutto il suo Lavoro, è tratto dalle sue relazioni familiari. Quindi è lecito chiedersi se, in fondo, nel pomeriggio che scandisce la durata del film, non stia assistendo a ciò che è l'essenza del suo scrivere... è una specie di mise en abyme dell'intero film.
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Al centro del palco
Come è stato recitare in questo film? Sei sostanzialmente il centro di ciascuna scena. Ero terrorizzato, naturalmente, di interpretare questo personaggio che in realtà non parla mai. Tutto si basa sull'ascolto e la reagire agli altri, un'esperienza davvero interessante. Ricordo quando ho ricevuto la prima sceneggiatura. Xavier me l'ha mandata per posta accompagnata con una lettera molto dolce scritta a mano, in cui diceva che si sentiva un po' a disagio ad offrirmi questa parte, e che aveva paura che sarei stato sorpreso o infastidito da un ruolo che ha così poche battute. Mi ha rassicurato e raccontato storie meravigliose su quanto si può esprimere senza parlare e di come sarebbe stato interessante vivere di quei silenzi.
Ti è piaciuto?
Moltissimo. Lavorare con Xavier è una vera gioia per un attore, perché anche lui è un attore e sai che ti tratterà con tutta l'attenzione, la precisione, l'amore possibile. È in grado di cogliere i più piccoli dettagli del tuo modo di recitare - soprattutto con quelle inquadrature strette, tutti quei primi piani. È un po' come finire sotto la lente di un microscopio. È grandioso perché sai che ogni respiro e ogni battito di palpebra verrà catturato dalla telecamera. È un'esperienza unica.
Lavora molto all'atmosfera dei suoi film?
Credo che ogni regista crei, in qualche modo, un tono o un'atmosfera e che questa dipenda molto dalla personalità del regista. In questo caso, naturalmente, era molto piacevole, tenera e leggera. Specialmente dato che il tema era tanto soffocante - nella storia, intendo - era fondamentale che ci fosse un clima diametralmente opposto fra un ciak e l'altro. Avevamo la necessità di respirare, di riprendere noi stessi.