Già in passato il cinema ci aveva permesso di fare la conoscenza del prodigioso chitarrista jazz Django Reinhardt. Correva l'anno 1999 e il film era Accordi e disaccordi, ritratto malinconico e bozzettistico firmato da Woody Allen dove Reinhardt era il nume tutelare del jazzista interpretato da Sean Penn. Molti anni dopo, e con qualche volo pindarico in meno, al leggendario chitarrista sinti viene dedicato un biopic più naturalistico e meno autoriale firmato da Etienne Comar. L'intento del regista è focalizzarsi sulla traumatica esperienza vissuta da Django Reinhardt nella Francia occupata durante la Seconda Guerra Mondiale, denunciando la sistematica persecuzione del popolo gitano da parte dei nazisti. Lo spaccato storico favorisce l'innesto di eventi e personaggi fictional con l'intento di dare colore e vivacità a una narrazione che, a visione conclusa, si rivela piacevole, ma priva di mordente.
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Django immortala la figura del geniale musicista, inventore di uno stile chitarristico personalissimo coniato dopo l'incendio in cui, da ragazzo, ha rischiato di perdere l'uso della mano sinistra e lo fa raccontandone il privato, la natura ribelle, gli amori e innaffiando il tutto con una buona dose di musica. Il risultato è un ritratto solido e verosimile, ma parco nel coinvolgimento emotivo dello spettatore. A mancare nella storia di Django Reinhardt e delle persecuzioni naziste ai danni della sua famiglia è l'odore del sangue. La volontà di eternare nel mito il ribelle Django, la sua spregiudicatezza e la sua libertà interiore, paradossalmente, sul grande schermo si traducono in una narrazione composta, minimalista, che difficilmente resterà impressa nella memoria collettiva.
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Ritratto naturalista del genio
Django affonda le sue radici nel romanzo di Alexis Salatko che racconta, con molta libertà, il percorso artistico e personale di Django Reinhardt. Pioniere del jazz e dello swing, Reinhardt si affermò negli anni '20 entrando nell'olimpo dei virtuosi insieme a Duke Ellington e Louis Armstrong. Quella di limitare il racconto della vita del musicista agli anni del conflitto mondiale è una scelta militante. L'intento è quello di denunciare le persecuzioni subite dall'artista e dalla sua etnia aprendo la discussione su una pagina meno nota dell'Olocausto. Curioso come a una scelta di campo così precisa corrisponda una narrazione dai toni sfumati, che suggerisce più che mostrare e non indugia più di tanto sugli orrori della guerra. Le scelte narrative di Étienne Comar sembrano contrassegnate da un pudore tanto apprezzabile quanto colpevole di attenuare i toni, privandoci di emozioni forti.
Per gran parte del film vediamo Django Reinhardt, interpretato da un encomiabile Reda Kateb, la cui recitazione è perfettamente in linea con le scelte registiche, intento a suonare la sua "musica da scimmie" (così la definivano i nazisti) insieme alla sua band oppure lo troviamo insieme alla madre e alla moglie nei campi nomadi in cui la famiglia è costretta a trasferirsi dopo la stretta del regime ai danni degli ebrei e dei gitani. Un capitolo a parte è riservato al personaggio di Cécile De France, Louise de Clerk, amante di Django ed esperta di musica che si fingerà collaborazionista per la causa della resistenza. E proprio questa figura, potratrice di una carica erotica e di una libertà intellettuale atipica per una donna dell'epoca, funge da catalisi del film nella scena in cui Django, dopo essersi rifiutato di andare in tournee in Germania, decide di accettare l'invito a suonare a una festa del regime per coprire la fuga di alcuni membri della resistenza. Scena, questa, costruita in un crescendo di tensione che contrasta col ritrmo generale della narrazione.
La doppia anima di Django
Croce e delizia di Django è la dicotomia tra il ritratto naturalistico, modalità dominante per la maggior parte del film, e la spy story da war movie che si innesta nel filone narrativo principale nella seconda parte, dando una scossa al ritmo ma, al tempo stesso, risultando un po' troppo artefatta. Un po' Intrigo internazionale un po' Bastardi senza gloria, il film cambia passo mostrando la feroce reazione dei nazisti alla musica suonata dal chitarrista che non accettava le regole e la rocambolesca fuga di Django Reinhardt fino al confine svizzero per evitare le rappresaglie.
Al di là della ricostruzione di un'epoca e al viaggio nell'interiorità del protagonista, al centro di Django vi è soprattutto la musica di Django Reinhardt, suonata insieme ai suoi musicisti nei locali di Parigi o nel boschi della Francia del Sud, di fronte all'alta borghesia o ai gitani, senza soluzione di continuità. Quando non suona, il Django di Reda Kateb è un uomo taciturno e riflessivo che ama pescare o stare seduto in silenzio a contemplare la natura. La sua trasfigurazione avviene nel momento in cui imbraccia una chitarra, facendo fluire attraverso di essa un'incredibile dose di energia e deliziandoci con i classici del gypsy jazz che snocciola uno dopo l'altro nel corso del biopic.
Movieplayer.it
3.0/5