Danzando intorno al mondo
Fino alla fine del mondo è, per proporzioni e per tematiche affrontate, il film più ambizioso girato da Wim Wenders. Sin dall'inquieto girovagare dei protagonisti (quindici città, sette nazioni e quattro continenti), la sensazione è quella di un lungo viaggio attraverso il mondo, ma come ruotando intorno allo stesso punto di un incolmabile vuoto interiore. Una voragine esistenziale causata dal progresso. Su tutto incombe l'imminente esplosione di un satellite nucleare che, una volta avvenuta, non farà altro che accelerare la progressiva divaricazione fra tradizione e modernità, gli stessi concetti chiave del film.
Il regista tedesco maschera il road-movie della "trilogia della strada" con la fantascienza della collocazione temporale e tecnologica (veramente profetico l'imperversare nel film di videofoni, cruscotti computerizzati ed altri dispositivi elettronici oggi di uso comune) e con il noir (il tema della ricerca caro, ad esempio, ad un classico come Il mistero del falco, insieme all'immagine alla Humphrey Bogart o, se preferite, alla Dick Tracy del detective). Quello che più interessa a Wenders nella sua operazione di ibridazione è comunque la critica alla cosiddetta "civiltà delle immagini", che svilisce il mondo reale sminuendo di conseguenza l'individuo. Fino alla fine del mondo mette in piedi una monumentale costruzione incentrata sul concetto della visione, a partire dal primo incontro tra Trevor McPhee/Sam Farber (che dice di avere qualcosa nell'occhio) e Claire, passando per il ruolo dei due genitori di Sam (il dottor Henry è un oculista e la madre è cieca), per poi concludersi con le ardite manipolazioni elettroniche del finale. Vedere nell'ambito della società contemporanea non vuol dire necessariamente vivere ("il mondo non è affatto vivo; la vita finisce ma io finalmente ho visto" dirà Edith Farber in punto di morte), soprattutto se ci si rapporta al cambiamento nella fruizione delle immagini che l'evoluzione del genere umano ha portato con sé.
Vedere oggi vuol dire essere mediati già in partenza, già al primo battito di ciglio, da un flusso di dati visivi che, in quella che è stata definita l'era della riproducibilità tecnica, diventano menzogneri prodotti di un qualcosa che ormai appare come (falsamente) ripetibile all'infinito. La completa assuefazione alle immagini "immagazzinate" precedentemente dalla vita reale o dai sogni notturni, tagliano fuori Claire e Sam dalla realtà circostante, accomunando le macchie informi del pianeta Terra visto dallo spazio in apertura di film alle già citate elaborazioni del finale (non dimentiche di tante correnti pittoriche del Novecento). Ci troviamo all'interno di un grosso artificio perché, come puntualizzato dallo stesso Wenders, Fino alla fine del mondo è "espressione dell'inattualità del movimento nello spazio, perché si può girare intorno al mondo senza allontanarsi troppo dal punto di partenza". Ma Fino alla fine del mondo, sempre secondo il regista tedesco, è anche un film d'amore perché, come ammonisce ancora una volta la signora Farber, "l'occhio non vede allo stesso modo del cuore". Il compito di "vedere" con il cuore Wenders lo assegna a Eugene, l'ex-compagno di Claire che sin dall'inizio del film ci accompagnerà con la sua voce off. Tradito e pur sempre fedele alla sua amata, Eugene si dedicherà anima e corpo ad una certosina opera di "trascrizione" dattilografica del romanzo per immagini che vedremo scorrere sotto i nostri occhi. I mezzi di comunicazione tradizionali (le parole scritte a macchina ma anche, nella versione director's cut, i disegni di Sam) e la conquista di uno spazio altro rappresentato dagl'incontaminati paesaggi australiani, leniranno le ferite inflitte dall'overdose visiva ai due protagonisti principali. Che così potranno tornare a danzare di nuovo intorno al mondo ed alla sua "inattualità".