Ci sono sguardi accoglienti e altri che ti feriscono, ti invadono, ti vengono addosso. Gli occhi di Daniel Day-Lewis sono iscritti al secondo club. E forse ne sono i fondatori. Tagliente ed enigmatico, lo sguardo di questo schivo signore londinese è sovraccarico di un carisma cangiante, che si trasforma a seconda del racconto, che cambia di animo in animo. Tra le sue pupille così sovrastanti abbiamo visto il malessere, la veemenza, il rancore, il delirio. Eroe primitivo, artista sensibile, uomo ripugnante, Daniel Day-Lewis è un attore che non conosce freni nel suo affidarsi alla cinepresa, e per questo ama sporcarsi le mani, il volto e tutto il corpo. Con il sangue dei nemici, le interiora delle carcasse, il petrolio della California. L'arte recitativa di Day-Lewis è pura apnea, immersione totale in qualcun altro, qualcosa di cui avvertire persino la mancanza perché centellinata nel tempo. Solo venti in film in 35 anni di carriera. Come se ogni ruolo sentisse la fatica di una vita intera da mettere in scena, di un'esistenza altra da portarsi addosso. Come se ad ogni personaggio lasciato alle spalle, lasciasse in eredità un pezzo di sé che se ne va. È forse per questo che c'è qualcosa di prezioso in Daniel, personaggio sfuggente attorno a cui aleggia una sorta di aura mistica piena di sacro rispetto. Nato a Londra da padre attore e madre scrittrice, il giovane Day-Lewis capisce presto che il suo grande amore lo aspetta sul palcoscenico.
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Lì sopra imparerà l'arte della recitazione, ma anche l'amore per il legno e l'artigianato. Sì, perché il buon Daniel è un uomo fuori da questo tempo, atipico nel suo desiderio di normalità. Lontano anni luce dagli onori e dagli oneri dello star system, il nostro si è ritirato a vita privata tra le verdeggianti colline irlandesi della contea di Wislow. Villaggi, semplicità, profumo di Medioevo. C'è forse più cinema nella sua vita straordinariamente normale che dentro i suoi personaggi spesso messi alle strette dalla vita. Non sarebbe forse un bel film la storia di un attore che per ben quattro anni (dal 1997 al 2001) si ritira dalle scene per studiare da apprendista ciabattino tra le vie di Firenze? Questo è Daniel Day-Lewis, talento selvaggio dove istinto e metodo convivono talmente da bene da averlo reso l'unico attore nella storia del cinema capace di vincere 3 Premi Oscar come Miglior Attore Protagonista. Oggi, in occasione dei suoi 60 anni, avremmo l'ingrato compito di allestire una classifica con le sue migliori interpretazioni. Come tentare l'azzardo di classificare l'eccellenza? Perché commettere l'ingiustizia di scegliere? E allora ecco tutte le preziose e indimenticabili prove di Daniel Day-Lewis, attore che non si presta al cinema. Si dà e basta. Anima, corpo e occhi taglienti.
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Eppur si muove - Il mio piede sinistro (1989)
Dopo l'esordio ufficiale del 1982 con Gandhi, l'ammutinamento de Il Bounty e l'impresa di riuscire a non essere schiacciato da due signore come Judi Dench e Maggie Smith in Camera con vista, arriva subito il momento della folgorazione (de della prima statuetta). Grazie ad un film impregnato di dolore e fatica, che inizia a legare il suo destino ai verdi colori d'Irlanda, Daniel Day-Lewis rievoca l'incredibile vicenda di Christy Brown, uomo affetto da handicap che riesce ad avere pieno controllo solo del suo piede sinistro. Un concentrato di volontà e ostinazione che lo portarono a diventare scrittore e pittore stimato. Day-Lewis vive talmente in mimesi col personaggio da imparare davvero a disegnare con il piede mancino, e a portare in scena il malessere di una vita balorda, piena di dispiaceri ed enormi conquiste. Chi ricorda bene il film, non dimenticherà quel mazzo di fiori.
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Selvaggio eroismo - L'ultimo dei mohicani (1992)
Nonostante il primo abbia vissuto nel Medioevo e il secondo abbia combattuto guerre settecentesche, stando alla storia del cinema, prima di William Wallace venne Occhio di Falco. Quasi in contrappasso con il ruolo precedente, Daniel Day-Lewis trova il suo personaggio più prestante e legato ad una fisicità eroica e spigolosa, seppur mai sovraesposta dal tatto di Michael Mann. In perfetta sintonia con il contesto selvaggio di quel meraviglioso Nord America da proteggere ad ogni costo, l'attore irlandese mostra un carisma capace di esaltare l'epicità di un film ispirante, dove la Natura selvaggia si riconosce a meraviglia nella fierezza del suo protagonista. Il tutto sostenuto da un'indimenticabile colonna sonora che sembra trasudare libertà ad ogni nota.
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L'età dell'innocenza - Reprimere a oltranza (1993)
Il primo battesimo tra Martin Scorsese e Daniel Day-Lewis non poteva essere un battesimo immacolato e puro. Tratto dal romanzo omonimo di Edith Wharton, L'età dell'innocenza è un lungo e logorante dilemma interiore, tutto vissuto sul volto composto e nella morale integerrima di Newland Archer. Uomo perbene della New York di fine Ottocento, Archer vive dentro di sé un conflitto inedito, che ne mette in discussione le storiche etichette. Un conflitto che nasce da una donna che non dovrebbe desiderare, una persona che le etichette sociali del tempo rendevano proibita. Scorsese è magistrale nel concentrare sul suo protagonista questa dicotomia tra desiderio di passione e repressione ad oltranza. Un contrasto che si gioca tutto sulla perenne ambiguità di Day-Lewis.
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Nel nome del padre - Preghiera laica (1993)
L'Irlanda irrompe nella sua vita cinematografica con la seconda delle tre collaborazioni con Jim Sheridan (nel 1997 arriverà The Boxer). Siamo nel 1974 quando il giovane Gerry Conlon viene ingiustamente accusato di terrorismo e affiliazione all'IRA e trascinato in un lungo incubo assieme ad amici e soprattutto a suo padre. Grazie alla solita regia asciutta del regista di Dublino, Nel nome del padre ha il grande merito di creare empatia nello spettatore senza mai imporre la commozione. Se ci riesce è soprattutto grazie alla misura di un Day-Lewis che, nonostante i soprusi, le ingiustizie e il dolore, non perde mai un briciolo di dignità. Memorabile il suo sguardo lucido e vibrante quando, in tribunale, viene mostrato un foglio che testimonia la sua totale innocenza.
Gangs of New York - Carne da macello (2002)
Sembra quasi di sentire il rumore dei suoi coltelli che si affilano, pronti ad affondare nella carne, e poi la puzza del sangue, l'odore stantio delle carcasse con cui convive. Bill il Macellaio incute timore anche senza proferire parola, con quei capelli perennemente sudici, l'occhio vitreo, lo sguardo spiritato e quel baffo arricciato che creano il grande antagonista di Gangs of New York. In quella città fangosa e putrida, dominata dalla violenza, Martin Scorsese elegge il suo ambasciatore del male grazie ad un Day-Lewis inquietante, una minaccia umana che manifesta di continuo il suo violento desiderio di dominio sugli altri. Durante le riprese di una scazzottata, Leonardo DiCaprio ruppe il setto nasale del nostro, che continuò a girare come in trance agonistica.
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Il petroliere - Di olio e di odio (2007)
Sangue nero scorre nelle vene di Daniel Plainview, avido petroliere condannato alla solitudine e isolato dalla sua comunità e da un destino beffardo. L'incontro da Day-Lewis e Paul Thomas Anderson è un abbraccio d'arte ipnotico da cui nasce uno dei film più feroci e viscerali della storia del cinema, capolavoro moderno che racconta le derive dell'ossessione e del possesso. Con poche quanto decisive e soppesate parole, Il petroliere delinea l'inevitabile spirale di un uomo che affonda, proprio come una trivella, nella sua terra, dentro sabbie mobili private. Ancora una volta dotato di baffi e di occhi lucidissimi, Daniel Day Lewis è l'anima di un epopea capitalista, il simbolo di un'opera amara e meravigliosa. Il secondo Oscar è doveroso.
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Lincoln - La causa bianca (2012)
C'è qualcosa di profondamente storico in Daniel Day-Lewis. Uomo d'altri tempi nella vita, volto di epoche ormai andate al cinema. La sua ultima interpretazione coincide con l'ennesimo sguardo gettato verso il passato. Un passato decisivo per la storia dell'Occidente. Steven Spielberg lo elegge Abraham Lincoln, lo mette a capo di un affresco storico rigoroso per narrare i momenti focali dell'abolizione dello schiavismo negli Stati Uniti della Guerra di Secessione. Raggrinzito e secco, consumato dal senso del dovere, Day-Lewis si muove lentamente per tutto il film come se si trovasse su esili trampoli. I suoi sguardi persi nel vuoto ma pieni di pensieri mettono in scena una lunga implosione, tutta giocata sulle sfumature. Quando si parla di storia, ci si chiede spesso chi ci sia dietro ai grandi uomini. Lincoln ci mostra persino cosa c'è dentro. E lo fa grazie ad un attore potente, che aspettiamo con ansia a fine anno (nel prossimo film di Paul Thomas Anderson) come si fa con le cose preziose.