Recensione Il pianeta delle scimmie (1968)

Anche a più di trentacinque anni dalla sua realizzazione, il film di Schaffner non cede di un solo passo e si tiene stretta la palma di icona popolare

Dalle origini del genere umano al futuro del mondo

Era il 1968 quando sugli schermi di tutto il mondo arrivò Il pianeta delle scimmie, pellicola liberamente tratta dal romanzo di Pierre Boulle che avrebbe segnato, insieme al contemporaneo 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, in maniera indissolubile il cinema di fantascienza moderno, mettendo al centro della narrazione l'uomo e la sua psicologia piuttosto che l'alieno invasore. Tutto parte ovviamente a bordo di una astronave quando, a causa di un errore di un computer, precipita su un pianeta sconosciuto e parte dell'equipaggio perde la vita, lasciando l'unico sopravvissuto, George Taylor, a vagare per terre apparentemente desolate. Non ci vorrà molto a realizzare che il protagonista è tutt'altro che solo, braccato da quelle che a prima vista possono sembrare belve selvagge, scimmioni e oranghi, ma che in realtà per un crudele scherzo del destino sono la razza dominante.

Le sorprese non finiscono qui perché le scimmie parlano e vivono quasi fossero un'antica civiltà nostrana, mentre gli altri umani non sono altro che "animali", incapaci di parlare o compiere qualsiasi gesto che necessiti di un barlume di intelligenza, e per questo tenuti in gabbia. Il rovesciamento dei ruoli che noi spettatori viviamo attraverso gli occhi del protagonista, e quindi come vittime di questa paradossale situazione, si rileverà in tutto e per tutto riuscito, mostrandoci come si tendano a commettere sempre gli stessi errori, le stesse violenze e crudeltà tipiche di chi detiene i potere. E con la sequenza finale - probabilmente una delle più belle, famose e citate dell'intera storia del cinema di fantascienza - la critica degli autori insita nel film si fa ancora più feroce prendendo una piega quasi machiavellica e mostrandoci come la storia possa essere ciclica e nonostante questo si possa non imparare nulla dal passato.

Nel già citato film di Kubrick sia la premessa che la morale erano piuttosto simili, ma il modo in cui temi simili sono sviluppati non potrebbe essere più differente: lì dove in 2001 avevamo soltanto un viaggio all'interno della mente e della coscienza umana, nel film di Franklin J. Schaffner il viaggio è soprattutto fisico, e ad uno sviluppo più puramente psicologico e metafisico va affiancato anche uno più avventuroso e rocambolesco, così come sentimentale quando si tratta dei due coniugi scimpanzé Zira e Cornelius, che sono poi gli unici ad offrire una chance al personaggio interpretato, in maniera indimenticabile, da Charlton Heston.

A più di trentacinque anni dalla sua realizzazione, Il pianeta delle scimmie si dimostra come film vitale e dotato di un fascino sempreverde, capace di far chiudere un occhio allo spettatore odierno sugli effetti speciali ormai abbondantemente superati e di apprezzare l'opera in ogni suo aspetto: da quello più letterario a quello psico-sociologico, da quello squisitamente estetico (le maschere e il trucco sono sì tecnologicamente antiquate ma ancora di tutto rispetto, forse anche perché parte integrante della storia del cinema e della cultura popolare) a quello più puramente d'azione, il film di Schaffner non cede di un solo passo e si tiene stretta la palma di icona popolare.

Movieplayer.it

5.0/5