Da Pennywise a The Monkey: quando l'horror gioca con l'infanzia

Se la paura è una questione di ricordi, la poetica di Stephen King diventa narrazione formativa che utilizza l'infanzia come viatico per generare il terrore. Come dimostra il film di Osgood Perkins, al cinema dal 20 marzo.

Lo sguardo di The Monkey

È sempre una questione di ricordi. È tutto lì, sedimentato in una memoria sbiadita, composta e ricomposta da immagini flebili e sensazioni contrastanti. Ogni miglior racconto, del resto, parte dal passato. Ciò che siamo, del resto, ha radici ben profonde. Questione di identità, questione di formazione. Lo sa bene Stephen King, che nella sua elaborazione del terrore parte quasi sempre dall'infanzia, allungandosi verso l'adolescenza. È lì che diventiamo ciò che saremo.

The Monkey Scimmia
La scimmia protagonista

Età complicata, veloce, segnata da tumulti fisici e psichici. Età perfetta per essere contenitore di storie universali, caratterizzanti rispetto alla malvagità intrinseca all'uomo. Solo l'uomo, però, suggeriscono certi tipi di horror, può sconfiggere il male da lui stesso perpretrato. Sarebbe banale citare il viaggio catartico di Stand by Me (dal racconto Il corpo), oppure Carrie (dove il bullismo è centrale, in allegato al concetto di vendetta) o il piccolo Danny di Shining e, ancora, ovvio il rimando a quel cult chiamato IT. Pennywise è divenuto simbolo delle paure recondite e ancestrali, capaci di restare appiccicate addosso, plasmandoci a suo modello e somiglianza. Che poi, a guardar bene, è la stessa cosa che ritroviamo in The Monkey di Osgood Perkins (lo stesso di Longlegs), appunto tratto dal racconto La scimmia di King (al cinema dal 20 marzo con Eagle Pictures).

L'horror come romanzo di formazione

In fondo, l'universo di Stephen King è di quelli condivisi: un mondo dove il male esiste e ragiona in contrasto rispetto al bene (e l'esempio di uno dei suoi migliori romanzi, The Outsider, è palese in tal senso). La dimensione provinciale (il suo Maine a fare da sfondo) che amplifica e contraddistingue l'incomunicabilità generazionale (e il ruolo dei genitori che si assottiglia), il timore del confronto, poi tradotto seguendo gli stilemi di una scrittura che punta alla paura come elemento fondante e non accessorio.

It: Tim Curry in un'immagine della serie tv del 1990
It: Tim Curry in un'immagine della serie tv del 1990

Ed è ciò che poi avviene in The Monkey: Perkins sceglie una chiave quasi comica per leggere Stephen King - e l'horror in generale - partendo però dal passato di due fratelli gemelli segnati da una scimmia malefica che, una volta suonato il suo tamburo, ci avvicina sempre più verso l'apocalisse. Il giocattolo, quindi, diventa un oggetto archetipico capace di tramandare il terrore, e non solo un oggetto capace di riaccendere i ricordi più belli. Un gioco di forti contrasti e forti echi, ben agganciato alla poetica dei migliori horror generazionali.

The Monkey: la paura come eredità

Che poi, a pensarci bene, è tutta una questione di eredità. Il club dei perdenti di IT ha ereditato il peso specifico di un male iconografico (il pagliaccio, figura controversa e bipolare), portandosi dietro un'ineluttabile sensazione mortifera - da cui si libereranno solo dopo anni, e solo dopo aver guardato in faccia la paura -, mentre i gemelli Shelburn di The Monkey si rimpallano, fin dalla placenta, una strisciante incomprensione mista a intolleranza (soprattutto Bill, che bullizza ed emargina Hal) somigliante a rivalità. Diversi tra loro, affronteranno la crescita separandosi da loro stessi, azzerando ogni tipo di emozione e, soprattutto, provando a sfuggire al tamburo della scimmia demoniaca (piccola curiosità: nella storia di King ci sono i piatti).

Come detto, è una questione di formazione: ogni horror che gioca con l'infanzia è, in altre letture, un coming-of-age dai tratti disfunzionali. In fondo l'horror è tra i generi più malleabili di tutti, perfetto per adattarsi a ogni tono o situazione (e Osgood Perkins, per certi versi, sceglie la via della comicità beffarda, tout court), prestandosi a diverse letture e allegorie. Basti pensare anche a Babadook di Jennifer Kent (reputato da King un capolavoro), basato sulla simbologia dell'uomo nero, o allo sperimentale Skinamarink di Kyle Edward Ball, basato sulle suggestioni visive di un bambino tra le stanze di una casa oscura: la favola nera destrutturata secondo uno sguardo capace di portare ad un'accettazione di sé, che non può non passare attraverso un trauma. Per questo, al pari di altri grandi autori formativi, la poetica di Stephen King potrebbe essere - se non obbligatoria - almeno consigliabile come lettura scolastica.