Io e te avevamo forse intenzione di incontrarci? Non credo, ed è perché le cose più belle avvengono per caso, perché così è la vita e per questo tu sei qui in mezzo all'oceano con me, e non al sicuro in una stupida vasca di vetro.
In uno dei dialoghi più significativi di Alla ricerca di Dory, e in una delle scene chiave del film, la simpatica protagonista ricorda a uno dei suoi nuovi amici, un polpo 'addomesticato' di nome Hank, il ruolo inesorabile del caso nelle nostre esistenze - nel bene e nel male - e la necessità di saper cogliere il meglio dalle opportunità offerte dalla Dea bendata. È un monito al polpo che ha sempre sognato di godere dell'immobile tranquillità di un acquario, ma anche agli spettatori, per i quali quell'oceano infinitamente vasto, e spesso terribilmente pericoloso, diventa l'equivalente metaforico di un mondo, giustappunto, infinitamente vasto e terribilmente pericoloso.
Il film di Andrew Stanton, nuovo lavoro targato Disney Pixar appena approdato nelle sale italiane dopo lo strepitoso responso già riscosso in America, riprende dunque uno dei temi già al cuore del suo illustre capostipite: quel gioiellino intitolato Alla ricerca di Nemo che nel 2003 si impose come il maggiore successo nella storia della Pixar, portò nelle sale circa centocinquanta milioni di spettatori e si aggiudicò il premio Oscar come miglior film d'animazione. Si torna infatti a parlare di viaggio, esplorazione e avventura come ingredienti indispensabili per la crescita individuale e la conoscenza del mondo: argomenti trattati da numerosi titoli del catalogo Pixar, ma da angolazioni via via nuove e con sfumature sempre diverse.
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Da Toy Story a oggi: crescendo con la Pixar
Per un tipo di cinema come l'animazione, e in particolare l'animazione hollywoodiana e mainstream rivolta ad un pubblico vasto ed eterogeneo, un target irrinunciabile è rappresentato dagli spettatori più giovani: i destinatari privilegiati di opere che parlano anche - ma non solo - dell'infanzia e dell'adolescenza. Aspetti a cui la Pixar si è dedicata fin dal suo glorioso esordio nel campo dei lungometraggi, nel 1995, con il primo capitolo della saga di Toy Story: guarda caso, una celebrazione del potere immaginifico dei bambini mediante le "vite parallele" dei giocattoli del piccolo Andy Davis. Giocattoli dotati di mente, mobilità e sentimenti, proprio come gli esseri umani, in un film che avrebbe segnato l'inizio di un percorso portato avanti con il successivo Toy Story 2 del 1999 per poi approdare, nel 2010, a uno dei capolavori assoluti della scuola Pixar, Toy Story 3 - La grande fuga di Lee Unkrich. Dai sei anni del primo film, in Toy Story 3 ritroviamo Andy diciassettenne e pronto (forse) a separarsi dai suoi amati "compagni d'avventure" dell'infanzia: compagni che, così come il loro padroncino, dovranno prendere atto del tempo trascorso e delle diverse stagioni della vita.
Dotato di uno degli epiloghi più perfetti, cristallini ed emozionanti del cinema di ogni genere ed epoca (provate a terminare il film con gli occhi asciutti, se ne siete capaci), Toy Story 3 ha portato a compimento una storia di coming of age che in qualche modo accomuna l'umano Andy a Woody, Buzz Lightyear e gli altri eroi di plastica. Un approccio che la Pixar ha impiegato nei propri film in molteplici occasioni: adoperare i suoi protagonisti, che si tratti di giocattoli o di mostriciattoli, di pesciolini o di automobili, di topolini o di robot, per instaurare una correlazione metaforica con l'esperienza umana. Costruendo così, in ogni film o quasi, un ideale racconto di formazione che possa riflettere incertezze, paure e speranze sia di chi si sta affacciando al mondo per la prima volta, sia di chi contro quel mondo continua a sbatterci la testa, ad indignarsi con tutta la propria rabbia e, soprattutto, a restarne ferito.
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Fra Parigi e lo spazio: coltivare il talento e conoscere il mondo
Nel filone del coming of age possono essere ascritti, almeno in parte, anche i maggiori cult realizzati dalla Pixar nello scorso decennio: film decisamente all'avanguardia sia per il modo innovativo con cui hanno trattato tematiche da sempre prossime al cinema d'animazione, sia per l'audacia di alcune scelte a livello di caratterizzazione, drammaturgia e perfino di messa in scena. Nel 2007, il meraviglioso Ratatouille ha conquistato il pubblico grazie alle divertenti vicende di Rémy, ratto dalle strabilianti doti culinarie che a Parigi, nelle cucine di un raffinato ristorante, diventerà un rinomato chef collaborando con il giovane sguattero Alfredo Linguini. La fortuna crescente di Alfredo e Rémy in qualità di cuochi procede di pari passo con un'apologia sulla necessità di coltivare il talento e di seguire la propria strada (non a caso Rémy è sottomesso all'autorità dello scontroso padre Django, che vorrebbe proibirgli qualunque contatto con gli umani).
La progressiva scoperta del mondo, ma in particolare dell'altro, nel corso di un appassionato processo comunicativo, è il nucleo del film probabilmente più originale e poetico girato dalla Pixar in questo periodo: WALL·E, gioiello di Andrew Stanton del 2008, in cui il delizioso robot del titolo, unico abitante di un pianeta abbandonato a un degrado infinito, scopre emozioni mai provate prima di allora dal momento in cui si imbatte in un'altra intelligenza artificiale, un robot femmina di nome EVE. Determinato a non perdere EVE, WALL·E prenderà la fatidica decisione di abbandonare la sua dimora sulla Terra e di aggrapparsi al razzo che condurrà lui e la sua nuova amica sull'astronave Axiom, sede di un'umanità costretta a vagare per lo spazio. E nella 'formazione' di WALL·E, un tassello fondamentale è costituito proprio dal cinema: una videocassetta del film Hello, Dolly!, grazie a cui il nostro eroe apprenderà le nozioni essenziali sulla musica, la danza e l'amore. Un analogo "viaggio verso l'alto" sarà quello compiuto nel 2009 dai due irresistibili comprimari di Up di Pete Docter: in questo caso, il coming of age del giovane scout Russell (un esploratore in erba, appunto) farà da contraltare alla "chiusura del cerchio" per l'anziano vedovo Carl Fredricksen, intenzionato ad esaudire un sogno di gioventù che non aveva mai potuto perseguire.
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Piccole donne - e piccoli mostri - crescono
Più tradizionale, nel solco del tipico racconto di formazione, risulta essere la parabola di Merida, la principessa scozzese protagonista nel 2012 di Ribelle - The Brave. Un personaggio contraddistinto da un'anticonvenzionalità che trascende gli stereotipi delle classiche principesse Disney: a partire dalla folta chioma riccioluta color rosso fiammante per arrivare al temperamento da vera guerriera e da donna indipendente, che non è disposta a piegarsi a un matrimonio di convenienza. La 'crescita' di Merida, in questo caso, passerà attraverso un'evoluzione nel rapporto conflittuale fra lei e la madre Elinor, la quale alla fine accetterà di rispettare la volontà e le inclinazioni della figlia. Da una storia fiabesca ma dallo spirito modernissimo a un film in cui una tappa basilare dell'esperienza umana - il college - viene applicata a creature bizzarre quanto divertenti: nel 2013 ecco dunque arrivare nelle sale Monsters University, prequel di Monsters & Co., in cui viene narrata la formazione universitaria (ma non solo) dei due mattatori del cult del 2001, i mostriciattoli Mike Wazowski e James Sullivan. Una formazione il cui veicolo privilegiato sarà inevitabilmente il legame di amicizia fra i personaggi e la loro capacità di "fare squadra".
Un discorso a parte, e ben più complesso, meriterebbe invece quello che può essere considerato l'indiscusso apice della filmografia Pixar - e in generale del cinema d'animazione - quantomeno dell'ultimo lustro: Inside Out, il capolavoro di Pete Docter, accolto trionfalmente lo scorso anno. Un film che ha avuto il coraggio di decostruire letteralmente i canoni del coming of age, portando in scena emozioni scombinate, contraddittorie e virulente come possono essere quelle che si agitano nella mente di una bambina di undici anni, Riley Andersen, nel momento in cui la spensieratezza dell'infanzia è infranta dai piccoli, grandi traumi della preadolescenza, scatenati dal senso di sradicamento provocato dal trasloco della propria famiglia. Dei meriti di Inside Out abbiamo già avuto modo di discutere ampiamente, e qui ci limiteremo a ribadire l'intelligenza e la poesia con cui questo classico contemporaneo è riuscito a rielaborare la struttura del racconto di formazione illustrandone i meccanismi più intimi: quelli relativi alla nostra sfera emozionale.
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Nuotando in mare aperto con Marlin, Dory e Nemo
Torniamo così allo spunto di partenza, ovvero le avventure sottomarine di Marlin, Dory e Nemo nel dittico di film che li hanno visti protagonisti; due pellicole in cui, fra l'altro, una stessa struttura drammaturgica viene riproposta in maniera analoga, rovesciando però gli equilibri e i ruoli dei tre personaggi e con alcune varianti significative. In Alla ricerca di Nemo, il fulcro della storia è rappresentato infatti dal rapporto tra padre e figlio: come pure in Ribelle - The Brave e in innumerevoli altri titoli del cinema d'animazione, un racconto di formazione difficilmente può prescindere da un confronto/scontro generazionale, che in questo caso viene declinato nel conflitto fra il desiderio d'indipendenza del piccolo Nemo e le premure soffocanti del padre Marlin. Il 'sequestro' di Nemo, pescato dalle acque dell'oceano e finito nell'acquario di un dentista di Sydney, sarà dunque il motore di un duplice percorso: se Nemo dovrà imparare a cavarsela da solo e trovare un modo per superare le difficoltà della sua "vita da pesce", a Marlin toccherà sfidare i pericoli dell'oceano e, impresa ancor più proibitiva, imparare a lasciar 'navigare' in libertà il figlioletto, ponendo un freno alle proprie apprensioni.
In quest'ultimo Alla ricerca di Dory, invece, il peso narrativo è spostato decisamente a favore della pesciolina del titolo, la quale nel film capostipite rivestiva la funzione di "aiutante" per Marlin, mentre ora è protagonista di una quest che la riguarda in maniera personalissima: il viaggio come ricongiunzione ad un background familiare e come ricerca delle proprie origini (e quindi, per estensione, come ricerca su se stessi e sulla propria identità). Dory, la cui smemoratezza costituisce un handicap apparentemente insormontabile, dovrà pertanto estendere i limiti della propria memoria: una memoria che può essere intesa, in senso più ampio (non dimentichiamo il valore dei sottotesti metaforici nei film Pixar), come l'abilità di conoscere e comprendere il mondo, razionalizzando le nostre paure e, per riprendere la citazione d'apertura, imparando a destreggiarci fra gli scherzi del caso e le svolte dell'esistenza. Fino ad affidarci, nei momenti più difficili, alla "memoria del cuore": quella memoria che rende quasi impossibile sbagliare e, cosa più importante, contro la quale non c'è davvero amnesia che tenga.
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