Recensione Magnifica presenza (2012)

Così, racchiusi tra mura protettive e rassicuranti, i protagonisti danno corpo a un confronto tra vivi e morti in cui la memoria del passato e il richiamo del presente costruiscono le fondamenta di una messa in scena soprannaturale nella forma, ma decisamente umana nel contenuto.

Così è, se vi pare

Pietro Ponte si stupisce, sorride e si spaventa. Pietro Ponte è un Acquario ascendente Gemelli e viene dalla provincia di Catania con l'ambizione di diventare un attore. Per concretizzare questo sogno e dare finalmente inizio alla propria vita, il ragazzo timido e fragile abbandona la Sicilia alla volta della capitale. Qui, nonostante le grandi aspettative, lo attende una realtà più complessa fatta di un lavoro notturno in pasticceria e di una cugina dalla vita sentimentale piuttosto burrascosa. Però, tra una serie di cornetti realizzati con perfezione maniacale e un amore costantemente assente, per Pietro sembra arrivare finalmente l'occasione giusta per affrancarsi dai legami famigliari e da una vita che non ha alcuna intenzione di accontentarlo facilmente. L'inizio della nuova era è rappresentato da un vecchio appartamento nel cuore di Monteverde, ma, varcando la soglia di quest'abitazione bisognosa di cure amorevoli, il giovane aspirante attore non sa di aver dato inizio a un'avventura umana al limite dell'incredibile. Qui, negli spazi di una casa apparentemente abbandonata, Pietro diventa il primo abitante di una terra di mezzo in cui passato e presente riescono a dialogare grazie alla forza della memoria e alla disponibilità di chi ascolta. Spettatore privilegiato e testimone oculare, intreccia i suoi passi con chi prima di lui ha abitato quelle mura, ricostruendo così il percorso di un'umanità perduta per le cronache storiche ma ancora viva attraverso la grande "menzogna" del teatro.


La differenza che passa tra un regista e un autore risiede soprattutto nella personalizzazione della propria visione. Partendo da questo punto di vista, in molti possono aspirare a essere degli ottimi tecnici ma veramente in pochi riescono a esprimere uno stile unico e riconoscibile al primo sguardo. Dopo molti anni di apprendistato presso registi come Massimo Troisi e una carriera ormai più che decennale, Ferzan Ozpetek può vantare, senza alcuna possibilità di smentita, di appartenere alla seconda categoria avendo costruito un gusto estetico e una qualità narrativa tanto personali da trovare le loro origini nel suo percorso privato e nelle suggestioni culturali che lo hanno accompagnato fino ad oggi. Il piacere del cibo, il gusto per la tavola imbandita, la convivialità che perfettamente si sposa con un'idea di famiglia allargata e l'importanza della memoria sono tutti elementi ricorrenti che, nel bene e nel male, hanno caratterizzato il suo modo di fare cinema. Un percorso che, ripetuto con una puntualità a volte un po' assillante, negli ultimi anni ha ceduto alla tentazione di una facile autocelebrazione per poi riuscire con Magnifica presenza nel tentativo di rigenerare forme un po' sbiadite e contenuti sempre meno efficaci. Così, pur rimanendo saldamente ancorato a un preciso immaginario e agli elementi basilari della sua poetica, Ozpetek costruisce un'avventura nostalgicamente emotiva capace di rintracciare nell'ambiguità dell'arte e nella fragile bontà di chi crede alle illusioni la forza per ravvivare un'attenzione troppo concentrata sulla perfezione dell'immagine.

In un costante rimando di riflessi tra verità e finzione, realtà e rappresentazione, il regista turco definisce i contorni di un palcoscenico in cui mettere in scena la rappresentazione della quotidianità, naturalmente divisa tra dramma e commedia. Così, racchiusi tra mura protettive e rassicuranti, i protagonisti danno corpo a un confronto tra vivi e morti in cui la memoria del passato e il richiamo del presente costruiscono le fondamenta di una messa in scena soprannaturale nella forma, ma decisamente umana nel contenuto. Un gioco, questo, che Elio Germano conduce con una naturalezza disarmante definendo il carattere di un giovane impermeabile alla malizia e per questo destinato a diventare una magnifica presenza per i fantasmi con cui divide l'appartamento. Smessi momentaneamente gli abiti da eroe del cinema socialmente impegnato, l'attore romano si arrende all'emozione e alla sua forza creatrice privilegiando l'uomo all'attore. E, pur facendo riferimento alla tecnica per modulare i toni, modificare i gesti e la postura, nella normale presenza delle debolezze e delle fragilità umane di Pietro riconosce gli elementi non da rappresentare ma da riscoprire prima di tutto in se stesso. Per questo motivo, più di una sceneggiatura efficacemente sintetica e una regia meno manierista, colpisce il suo volto costantemente pervaso da un'innocente apertura al mondo e ai suoi misteri. Specchio limpido e inalterabile su cui riflettere la follia degli uomini, il suo sguardo assume il doppio ruolo di narratore e spettatore, attraverso il quale è possibile assistere alla vite dei morti e credere ancora al dolce inganno dei sogni.

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4.0/5