Corea in fiamme
Il tenente Gang Eun-pyo viene inviato dal CIC presso la linea del fronte sulla collina Areok per indagare intorno alla morte sospetta di un comandante, ucciso in battaglia ma da un'arma appartenente agli ufficiali dell'esercito sud-coreano in lotta ormai da tre anni con i coreani del nord. E' compito di Gang capire cosa è accaduto e se si celino simpatizzanti comunisti o vere e proprie spie. Il compito è delicato anche perché il tenente viene spedito tra gli appartenenti alla divisione dei cosiddetti "alligatori", nelle cui fila Eun-pyo ritrova uno dei suoi più cari amici, che credeva morto all'inizio della guerra. Gli alligatori sono composti da ragazzi che fanno carriera in fretta o da veterani duri, una parte dell'esercito sospesa in un limbo fatto di cameratismo, disincanto e rassegnazione di fronte alla morte.
Le gioie della vita e i suoi valori, la possibilità di consuetudini differenti in un altro luogo sono tutti pensieri subordinati all'opprimente idea di poter rimanere uccisi da un momento all'altro. La ripetizione della routine di trincea, in cui lo scambio di qualche chilometro intorno alla collina provoca di volta in volta centinaia di vittime in entrambi gli eserciti coreani; d'altra parte la irriducibile prassi militare che non si occupa del disfacimento umano ma solo della portata dell'obiettivo (simbolico) è un elemento tipico del cinema bellico e antimilitarista a partire dall'indimenticato Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick. E dal punto di vista intertestuale la ricerca di Jang Hun (collaboratore di Kim Ki-duk che l'ha aiutato a esordire, scrivendo Rough cut) è profonda e calibrata, intessendo la sua opera di numerosi riferimenti che rendono The Front Line un compendio dal valore ulteriore, se pensato nel contesto della guerra di Corea, una guerra per noi esotica e dalle modeste dimensioni, ma che ha coinvolto milioni di persone uccidendone ben quattro in soli tre anni; lasciando nel momento dell'armistizio una cicatrice mai ricucita sul territorio coreano, quella del confine tra Nord e Sud tracciato sul 38° parallelo. Il confine che divide le due Coree è con tutta probabilità uno di quei tragici eventi che modificano la percezione popolare (una visione del mondo che si divide tra "amici" e "nemici" se si oltrepassano pochi chilometri) e ha ispirato diverse pellicole: nella sezione centrale del film, dopo che conosciamo attraverso gli occhi di Gang la vita della divisione degli alligatori, ritorna a galla la sottotrama gialla, in cui si scopre il contatto a distanza tra i soldati dei due eserciti che si passano oggetti e ricordi, veri e propri regali, riponendoli dentro yba cassa sotterrata in una delle tende sull'Areok - simbolo anche del continuo scambio di posizione tra i due eserciti - giocato su un fronte di piccolissime dimensioni - come accadeva per il "formichiere" kubrickiano - ricorda da vicino il poliziesco J.S.A. - Joint Security Area, primo successo di Park Chan-wook. Sono sprazzi dell'umanità perduta, sotterrata, da soldati dediti per mesi, se non anni, a essere spersonalizzati in una macchina da guerra collettiva che non può permettersi sentimenti come la paura, la nostalgia, e il dolore, fisico o emotivo che sia, è negato (vedi Young-Il assuefatto alla morfina). Jang Hun gira le movimentate scene delle azioni di guerra incollandosi ai corpi dei soldati, realizza immagini spaventosamente espressive mostrando gli infernali risultati di una singola battaglia, come nelle inquadrature sulla collina dove si accumulano, strato su strato, i vari plotoni che si sono massacrati a vicenda. Vista la spettacolarità delle sequenze, che chiamano in causa lo Spielberg di Salvate il soldato Ryan o l'Eastwood del dittico su Iwo Jima, incrinano la compattezza del discorso antimilitarista comunque sottoposto a un travagliato e ambiguo discorso sull'etica del soldato, vittima di ordini superiori e che porta avanti la guerra delle invisibili alte sfere. E l'etica degli eserciti coreani, sotto questo aspetto non divisi tra Nord e Sud, deve essere incrollabile se si accetta senza troppe remore l'essere carne da macelleria, vittime sacrificali sull'altare di una patria virtuale, lontana, mai veramente vissuta. Il regista ci fa vivere nel finale un'ultima e disumana battaglia che si svolge appena prima dell'attivazione dell'armistizio, uno scontro inutile e gratuito e per questo potentemente metaforico riguardo la valenza della guerra. Un finale cruento dove Hun non risparmia niente al suo spettatore, tra arti a brandelli e uccisioni indiscriminate, ma che ha dalla sua un prologo lirico e umanista: la canzone del giovane soldato intonato da entrambi gli eserciti, un inno di rassegnazione prima di gettarsi nella tempesta comune.