La mente di un serial killer è una rete intricata, un meccanismo a orologeria, un sistema che tutto prende e stringe, lasciando senza fiato.
Come sottolineeremo in questa recensione di Copycat Killer, anche Taiwan (sebbene la produzione sia giapponese) riscrive i canoni del thriller psicologico sviluppando una serie adrenalinica e adattata ai propri stilemi e i propri linguaggi, senza per questo allontanarsi dalle regole tradizionali del genere.
Ciò che ne risulta è un processo narrativo enigmatico, lontano da ogni superficialità, in cui nessuno è salvo ma ognuno è sacrificabile. Burattini manovrati da fili invisibili, i personaggi della serie diretta da Chang Jung-chi e Henri Chang (e disponibile su Netflix) si fanno pedine di un domino pronto a crollare. Un sistema psicologico intinto di sangue, smussato da uno scorrere del tempo fin troppo eccessivo che fa traballare fondamenta apparentemente solide, tenute insieme da urla tenute taciute, e risate colme di sadismo e terrore.
Copycat Killer: la trama
Ispirato al romanzo Mohōhan edito nel 2001 e scritto da Miyabe Miyuki, Copycat Killer trae linfa vitale dal sangue che riveste la scena del crimine di una serie di omicidi in una cittadina di Taiwan negli anni '90. Spinto da uno smisurato egocentrismo, il serial killer che ama chiamarsi Noh, mette in atto un articolato piano per trovarsi al centro dell'attenzione dei media e dimostrare la sua superiorità intellettuale rispetto alle forze dell'ordine di Taiwan. L'assassino effettivamente riesce ad attirare l'interesse sui suoi omicidi e, quasi come fosse un burattinaio, manipola in maniera spietata e umiliante le sue vittime, trasformando un caso delicato e complesso, in uno spettacolo in diretta nazionale. Una caccia al topo che porterà non poche conseguenze nello stato psicologico e fisico del giovane procuratore Kuo Hsiao-Chi.
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Curiosity killed the cat
Un uomo, eventuali complici, un procuratore e tante, troppe vittime. È un canovaccio già sfruttato e tutto da riscrivere quello di Copycat Killer. Una base narrativa presa in prestito da sprazzi di vita reale, e ricostruzioni di mente fantasiose che sembra non avere nulla di originale, risultando al contempo del tutto inedita e coinvolgente. Sfruttando un costrutto visivo capace di adattarsi alla portata verbale e narrativa di una sceneggiatura mai banale, la regia di Henri Chang e Jung Chi Chang riesce a tradurre la carica di mistero e di orrorifica tensione che si nasconde dietro l'azione di una mente perversa e diabolica. I traumi mai superati si fanno strumenti di morti annunciate da parte di soggetti che non hanno paura di rivelarsi. Prendendo per mano gli spettatori, i cineasti, coadiuvati dai propri sceneggiatori, conducono il pubblico a risolvere i misteri e indicare i responsabili ancor prima degli inquirenti sul campo, donando loro un potere quasi divino, di chi tutto sa e tutto manipola. Eppure, la rivelazione dei segreti non scade mai nel banale, ma riesce a riemergere sotto vesti nuove, tramutando l'ovvio e il prevedibile in ulteriori fantasmi da esorcizzare e ulteriori misteri da risolvere.
Il lungo tempo del terrore
In Copycat Killer nulla è banale, molto è pauroso, ma tanto va a perdersi nel corso di un minutaggio estremamente dilatato. La tensione gioca su un cronometro mai stabilito, ma comunque segnato dallo scorrere di lancette che a forza di girare depotenziano la sua carica angosciante. Il colpo di scena è uno schiaffo che fa paura, ma a generare un senso di ulteriore terrore nello spettatore non è un colpo improvviso, quanto un'agonia sviluppata nei giusti tempi. Quello di Copycat Killer è un tormento che si sfilaccia, perde di tensione nel corso di un arco narrativo alquanto dilungato, che depriva lo scorrere degli eventi di quello slancio finale verso un inferno emotivo disarmante e disorientante. Con dieci episodi dalla durata media di cinquanta minuti, indagini e omicidi, torture e segreti, giacciono in un limbo scosso da tsunami interiori e rivelazioni scioccanti che ne colpiscono i confini, per poi riporlo in una posizione di forzato equilibrio tra paura e sollievo, corpi martoriati e sguardi d'affetto. Così facendo, quella premessa colma di stupore e sublime disagio che tanto piace a uno spettatore alla ricerca del brivido, va a sgonfiarsi, perdendosi tra il ticchettio di lancette che scorrono fin troppo lente recidendo, come lame poco affilate, corpi in attesa di essere scoperti e rivelazioni che tardano nell'essere portate alla luce.
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Uomini con maschere e vittime senza identità
È un fiume che scorre senza troppi ostacoli, Copycat Killer, sebbene qualche perdita ne depotenzia momentaneamente la "portata idrica". Il troppo caricamento di certe performance come quella del killer Noh, o l'inserimento di montaggi di visioni oniriche un po' troppo marcate da risultare forzate e fuori contesto, spingono la corsa al killer fuori strada, oltre i bordi della carreggiata. Risultano al contempo ottime, e perfettamente in linea con la psicologia dei propri personaggi, le performance di Wu Kang-ren nei panni del procuratore Kuo, e quella della giovane giornalista Lu Yan-jhen, interpretata da Cammy Chiang. Ne consegue una galleria antropologica di uomini e donne pronti a vedersi strappati la natura di esseri umani per regredire allo stato di vittime giostrate da un killer manipolatore, mostruoso e disumano, proprio come quella maschera che indossa e che gli toglie ogni barlume di umanità resiliente.
Una caccia al topo in una cittadina sporcata di sangue: Copycat Killer non ha paura di inserire al centro della storia lo spettatore, offrendogli ogni informazione possibile e renderlo parte attiva di un'esperienza visiva posta tra la canonica rivelazione del killer di stampo thriller-psicologico, e un coinvolgimento videoludico grazie al quale ogni sussulto o stacco di montaggio si fa portatore di misteri e colpi di scena. Peccato per l'eccessiva durata che segna inesorabilmente un'opera impeccabile, proprio come il volto di una vittima innocente sfregiata con il segno rosso di un rossetto difficile da togliere.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Copycat Killer sottolineando come la serie disponibile su Netflix ambientata a Taiwan riesca a seguire le regole del genere thriller-psicologico, perdendosi però nei meandri di una durata alquanto eccessiva che ne depotenzia la portata orrorifica e angosciante. Molti eventi si ripetono, altri risultano forzati, lasciando lo spettatore in un sistema di cui ha compreso i meccanismi, ma verso cui a volte perde l'interesse.
Perché ci piace
- La performance di Wu Kang-ren, capace di tenere sulle spalle tutto il peso della serie.
- L'adrenalina mista a orrore di alcuni passaggi.
- Una regia capace di adattarsi al comparto narrativo.
Cosa non va
- La durata eccessiva dei singoli episodi e della serie in generale.
- La caratterizzazione di villain troppo caricati, tanto da risultare macchiettistici.
- Scene oniriche a volte fuori contesto.