Ci sono voluti otto, lunghissimi anni per rivedere un suo film al cinema. Nato in California, classe 1961, Todd Haynes aveva firmato il suo ultimo lavoro per il grande schermo - Io non sono qui, anomalo e intrigante ritratto di Bob Dylan - nel 2007. Dopo la parentesi televisiva di Mildred Pierce, miniserie del 2011 per la HBO tratta dal romanzo di James M. Cain, con Kate Winslet nel ruolo che fu di Joan Crawford, quest'anno Haynes ci ha regalato finalmente un'altra pellicola: Carol, trasposizione di un libro di Patricia Highsmith, già accolto dalle ovazioni della critica allo scorso Festival di Cannes.
Storia del sentimento tenero e travolgente fra Carol Aird, madre di famiglia dell'alta borghesia newyorkese degli anni Cinquanta, e Therese Belivet, giovane commessa con ambizioni da fotografa, Carol è una straordinaria rappresentazione del desiderio, affidata a una messa in scena a dir poco stupefacente e al talento delle sue comprimarie: una sublime Cate Blanchett, in una delle massime performance della sua carriera, e una bravissima Rooney Mara, premiata come miglior attrice a Cannes 2015.
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E nella speranza che Carol faccia il pieno di candidature ai prossimi Oscar, Todd Haynes è stato ospite della decima edizione del Festival di Roma per presentare in anteprima italiana il film (nelle nostre sale dall'11 febbraio, distribuito da Lucky Red) e per incontrare la stampa e il pubblico. Un'occasione per ripercorrere la splendida filmografia di Haynes e per ascoltare il regista americano, fra gli autori di maggior valore degli ultimi vent'anni, parlare dei suoi film preferiti e di quelli che lui considera i propri modelli di riferimento: un'influenza più che evidente nelle opere di Haynes, capaci di rielaborare i canoni del cinema classico con un'intelligenza e una modernità che ad ogni nuova visione non possono non lasciarci assolutamente ammaliati.
Lontano dal paradiso: riscrivere il melodramma
È possibile essere un autore dalla cifra stilistica ben marcata all'interno dell'industria hollywoodiana?
Todd Haynes: Io mi considero ancora una cineasta indipendente, in quanto non ho mai lavorato all'interno dello studio system, con l'eccezione di Mildred Pierce, realizzato per la HBO ma per la televisione. Penso che rimanere un autore sia una cosa difficile ma possibile. Per quanto mi riguarda, ritengo che i miei film siano sperimentali nella forma narrativa e che si basino essenzialmente su due ingredienti: gli attori, che offrono anche garanzie per il box office, e la produttrice Christine Vachon, che ha sempre lottato al mio fianco.
Lontano dal paradiso è ispirato ai melodrammi di Douglas Sirk: quanto è importante Sirk per il tuo lavoro?
Todd Haynes: Douglas Sirk ha avuto un'enorme influenza sulla mia opera, al college ho studiato molto il suo lavoro. Due fattori hanno contribuito alla riscoperta di Sirk: la critica femminista degli anni Settanta e Rainer Werner Fassbinder. L'elemento davvero radicale del cinema di Sirk, l'elemento chiave del melodramma domestico, era la sua capacità di usare un linguaggio artificiale per veicolare un senso di verità, in una dialettica fra artificio e verità dalla quale ho sempre tratto ispirazione.
Come si è sviluppato il tuo sodalizio con Julianne Moore?
Todd Haynes: Quando ho scritto Safe, il mio secondo film, non conoscevo Julianne Moore, che era ancora gli inizi della sua strepitosa carriera. Lei aveva appena girato America oggi per Robert Altman, e leggendo il mio script ha capito esattamente come calarsi in questo personaggio, facendolo materializzare davanti ai miei occhi. Da allora abbiamo stabilito un rapporto che ha segnato la mia carriera, e forse anche la sua, e infatti ho scritto Lontano dal paradiso apposta per lei.
Io non sono qui: da Bowie a Dylan, fra cinema e rock
Da cosa dipendono le differenze di stile fra i tuoi film, come per esempio in Velvet Goldmine?
Todd Haynes: Mi chiedo se davvero esista questa differenza. Nel cinema si usa un linguaggio artificiale per descrivere la realtà e per sfidare il concetto di identità. Gli anni Settanta sono stati un periodo assolutamente peculiare ed unico: l'epoca del glam rock, che ha esaltato il linguaggio teatrale e l'esibizionismo, si è iscritta in un'ampia tradizione culturale precedente, ovvero quella relativa alla letteratura, all'arte e al cinema queer. David Bowie ha costruito degli interi mondi di finzione attorno ai suoi personaggi, come Ziggy Stardust, Diamond Dog e Aladdin Sane: a me interessava ricostruire la sua parabola artistica in un universo parallelo.
Esiste un tema ricorrente nel tuo cinema?
Todd Haynes: L'elemento in comune potrebbe essere la resistenza rispetto alla nozione di identità: ad esempio, le donne nel microcosmo domestico che sfidano la loro condizione, a volte perfino attraverso la malattia. All'altro estremo abbiamo personaggi come David Bowie o Bob Dylan, i quali hanno rifiutato di farsi chiudere in una gabbia: Bowie ha rimesso in discussione le basi dell'identità sessuale con la propria androginia, mentre Dylan è stato una figura rivoluzionaria.
Che rapporti hai avuto con Bob Dylan per Io non sono qui?
Todd Haynes: Lui ha parlato del film in un'intervista a Rolling Stone un anno e mezzo dopo e ha dichiarato che gli era piaciuto. Mi aveva concesso tutti i diritti musicali e non ha interferito con il progetto. Non era interessato a un biopic convenzionale, per questo ha acconsentito a Io non sono qui.
Chi è per te Bob Dylan?
Todd Haynes: È impossibile rispondere a questa domanda, perché è una domanda a cui si possono dare molte risposte. Dylan ha contribuito a definire gli anni Sessanta, ma ha rifiutato di rimanere attaccato ad un'unica etichetta: lo ha sempre fatto, e infatti subito dopo il successo ha ucciso il Dylan precedente per potersi evolvere. Il ruolo di icona l'ha vissuto come una camicia di forza che ha dovuto strapparsi di dosso: il Dylan del 1966 interpretato da Cate Blanchett nel film è il Bob Dylan che ha ucciso il Dylan dell'ortodossia folk, rifiutando di dare facili risposte.
Quali indicazioni hai dato a Cate Blanchett per interpretare il ruolo di Bob Dylan nel film?
Todd Haynes: Mi sono limitato a mostrarle filmati del Dylan di quel periodo, il 1966, che era diverso rispetto al Dylan del 1965, quello del documentario Dont Look Back. Il Dylan di Cate è lo stesso Dylan di Blonde on Blonde, che faceva uso di anfetamine, si dimenava continuamente sul palco e suonava la chitarra elettrica. Il pubblico di allora rimase scioccato dall'improvvisa trasformazione di Dylan, e per restituire questo senso di sorpresa ho deciso di farlo interpretare da una donna, capace di riflettere anche il suo aspetto androgino. Cate all'inizio era intimorita dall'idea, ma io sapevo che sarebbe stata straordinaria.
Qual è invece il tuo ricordo di Heath Ledger, uno degli interpreti di Dylan in Io non sono qui?
Todd Haynes: Heath Ledger era un artista straordinario e a tutto tondo, nonché un attore di grande sensibilità, e continuerà a vivere attraverso i propri film. La figlia che Heath ha avuto con Michelle Williams somiglia tantissimo a lui, nell'aspetto, negli atteggiamenti e nel carisma, e ogni volta che vedo questa bambina rimango attonito. Heath mi manca moltissimo, e mi ritengo fortunato di aver avuto la possibilità di lavorare con lui.
Hai intenzione di girare un terzo film ispirato alle icone del rock, completando così un'ideale trilogia?
Todd Haynes: Non ho un progetto per un nuovo film sul rock, ma sono in procinto di realizzare una biografia della cantante jazz Peggy Lee, che sarà interpretata da Reese Witherspoon.
I numi tutelari, da Antonioni a Fassbinder
Uno dei tuoi film preferiti è L'eclisse di Michelangelo Antonioni: cosa ti affascina di questa pellicola?
Todd Haynes: L'eclisse l'ho visto di recente prima di girare Carol, e qualcosa di Monica Vitti mi ha ricordato Cate: il suo modo di vestire, l'eleganza dello scollo a barchetta. La costumista Sandy Powell è stata d'accordo nel realizzare lo stesso tipo di scollatura per l'abito di Cate in Carol. Sono rimasto meravigliato dalla precisione del linguaggio cinematografico e dalla capacità nella descrizione del senso di vuoto della vita moderna. L'eclisse è molto diverso da Carol, ma di Antonioni mi colpisce come riesca a trasmettere la mancanza di libertà dell'individuo, suggerita dalla macchina da presa: il modo in cui la cinepresa definisce lo spazio filmico è molto specifico e magnifico.
Cosa puoi dirci invece dell'altro tuo film preferito, La paura mangia l'anima di Rainer Werner Fassbinder?
Todd Haynes: Douglas Sirk ha girato nel 1956 il film Secondo amore, con Rock Hudson e Jane Wyman, che era anche il suo preferito fra i propri lavori. Si tratta di un perfetto esempio di melodramma: è la storia di una matura vedova che si innamora di un giardiniere più giovane di lei. Ma il loro amore scatena un panico sociale attorno a loro, perché mette in discussione i principi morali dell'epoca. Fassbinder ha ripreso la stessa idea nel 1974, creando una storia d'amore fra una donna delle pulizie, quindi appartenente ad una classe sociale bassa, e un giovane turco di colore: una vicenda semplicissima che però suscita una profonda aggressività nelle persone attorno a loro. Fassbinder faceva parte di una generazione di registi politici e post-marxisti formatasi alla fine degli anni Sessanta, ma la sua visione del cinema è cambiata del tutto dopo aver visto i film di Douglas Sirk: si è reso conto che il modo migliore per arrivare alla verità era la semplicità, distaccandosi pertanto da altri cineasti dello stesso periodo del movimento post-marxista. Questa tradizione di storie ambientate in ambienti dalle rigide gerarchie sociali mi ha influenzato moltissimo per film come Safe, Lontano dal paradiso, Mildred Pierce e in parte Carol.
Come mai per Carol hai scelto di ispirarti a Breve incontro di David Lean?
Todd Haynes: All'inizio di Breve incontro, dopo qualche minuto a un certo punto l'attenzione dello spettatore viene spostata sul personaggio interpretato da Celia Johnson, che nelle prime sequenze del film invece era confinata sullo sfondo. Mentre mi preparavo a girare Carol ho pensato che fosse interessante adottare lo stesso tipo di struttura, e pertanto in Carol ho reso omaggio proprio all'incipit di Breve incontro, con un espediente narrativo che mi sembrava molto raffinato.