Scrivere la recensione di Concrete Cowboy ci porta a ripensare a un periodo curioso della stagione festivaliera dello scorso anno: mentre la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia si svolgeva interamente in presenza, ma con un numero ridotto di partecipanti (circa 6.000 persone anziché le solite 12.000), il Toronto International Film Festival, che ha tradizionalmente luogo nello stesso periodo (i primi giorni si sovrappongono con la fine della Mostra) e con alcuni degli stessi film (molti dei quali in odore di Oscar), si è reinventato con una selezione striminzita - una cinquantina di film contro i quasi 400 di annate normali - e disponibile quasi interamente online (su richiesta degli aventi diritto, alcuni titoli avevano disponibilità limitata o nulla), con poche proiezioni fisiche riservate agli abitanti della città canadese. Tra quei titoli c'era anche il western di Ricky Staub, basato su un romanzo di Greg Neri. Chi scrive ha visto il film in tale occasione, sullo schermo del computer, pensando alla possibilità di eventualmente poterselo gustare di nuovo in sala, riaperture permettendo. Così non sarà, poiché l'opera prima di Staub arriva direttamente su Netflix.
Cavalli e genitori
Concrete Cowboy è la storia di Cole (Caleb McLaughlin, all'esordio in un lungometraggio), un giovane che vive a Detroit con la madre e ne combina di tutti i colori. Un giorno, stufa di questa situazione, la genitrice decide di lasciarlo con il padre, Harp (Idris Elba), residente a Filadelfia. Completamente opposto all'idea, Cole si ritrova in un mondo completamente nuovo, molto all'antica: Harp è infatti il leader di una versione fittizia del Fletcher Street Urban Riding Club, un'organizzazione no-profit che invita i giovani afroamericani a rigare dritto praticando la nobile arte dell'equitazione nel bel mezzo delle strade della città. Ma sarà sufficiente per reindirizzare il ragazzo sulla retta via? Gli stessi partecipanti ammettono che è difficile, soprattutto perché gli effetti positivi dell'iniziativa sono sconosciuti ai più, tramite la decisione di ometterla da gran parte dei documenti storici per gli oltre cent'anni della sua esistenza.
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Debutti da entrambi i lati della macchina da presa
C'è una consapevolezza, dentro e fuori lo schermo, del ruolo che i media, e in particolare il cinema, possono avere nel trasformare qualcosa a livello di immaginario collettivo, con i personaggi che riflettono sul relativo anonimato dell'organizzazione, nonostante esista da decenni (ma la forma attuale è stata fondata nel 2004). Forse perché, al di là della questione spinosa della rappresentazione delle minoranze, da sempre un problema della società in generale e di Hollywood in particolare (basti pensare agli Oscar di due anni fa, dove la statuetta principale è andata a Green Book, film che soprattutto negli USA ha destato diverse perplessità per la maniera schematica e, a suo modo, involontariamente discriminatoria nell'affrontare argomenti come il razzismo e l'omofobia, con tanto di paragoni con l'altrettanto problematico Crash - Contatto fisico), gli esponenti del Fletcher Street Urban Riding Club sono esteticamente associati a un genere "vecchio" come il western, un tempo dominatore del box office ma già da qualche decennio degno solo di occasionali riesumazioni, quasi tutte di nicchia (un raro esempio di vero successo commerciale, dieci anni fa, è stato Il grinta dei fratelli Coen).
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Pertanto l'operazione di Ricky Staub, con Idris Elba e Lee Daniels tra i produttori, è soprattutto un tentativo di innovare raccontando qualcosa di inedito senza stravolgere la realtà storica, o la percezione della stessa (cosa di cui Elba è pienamente consapevole, essendosi ritrovato con svariate critiche da parte di fan troppo zelanti per aver interpretato due personaggi di finzione ma comunque tradizionalmente raffigurati come bianchi come Heimdall nel Marvel Cinematic Universe e Roland Deschain ne La Torre Nera). È un'innovazione, ma dal sapore decisamente classico, con qualche ingenuità da esordio (alcune scene sono approssimative, altre caricate in eccesso) e un impianto decisamente d'altri tempi, per ricordarci che queste figure ci sono sempre state, semplicemente non ce n'eravamo mai accorti prima. E se a volte l'ambizione storiografica e mitopoietica rischia di soffocare l'impeto narrativo e la fluidità formale, sono degli inciampi abilmente compensati dalla simpatia degli attori, affiatati e perfettamente disposti a mettersi in gioco all'insegna del divertimento intelligente di genere.
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Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Concrete Cowboy, piacevole operazione di genere che omaggia il passato ma cerca anche di sottolineare un presente poco conosciuto. Un buon divertimento con un ottimo Idris Elba.
Perché ci piace
- La storia vera alla base del film è meritevole di approfondimento.
- Idris Elba è fenomenale come sempre.
- L'estetica d'altri tempi si sposa bene con le preoccupazioni contemporanee.
Cosa non va
- La regia dell'esordiente Ricky Staub è un po' discontinua.