Recensione The Woman in the Septik Tank (2011)

Una commedia, briosa e originale, una vera e propria satira ai costumi creativi e produttivi del cinema filippino.

Come ridere delle disgrazie altrui

Secondo film filippino presentato nella giornata di chiusura del FEFF 2012, The Woman in the Septik Tank comincia con una sequenza originata dalla voce fuori campo, che sta leggendo la sceneggiatura di un film. Esterno giorno. Interno notte. Gli slums di Manila. Una madre disperata che deve sfamare sette figli e decide di vendere la sua bambina a un pedofilo. Sembra l'ennesimo film sulle disgrazie e sulla misera vita degli emarginati nei paesi del Sudest Asiatico; quel tipo di cinema che dispregiativamente gli americani chiamano poverty porn e che viene intelligentemente preso in giro dal trailer del festival di Udine.
The Woman in the Septik Tank è però una commedia, briosa e originale, una vera e propria satira ai costumi creativi e produttivi del cinema filippino. Dopo la sequenza iniziale, Marlon Rivera porta lo spettatore all'interno di una vettura, dove vi sono tre giovani: Bingbong, Rainier e Jocelyn, rispettivamente il produttore, il regista e l'assistente alla produzione. I tre stanno rileggendo ad alta voce uno dei momenti topici della sceneggiatura scritta da Rainier, per vedere in che modo può essere realizzata. Per loro è un giorno importante, perché incontreranno la famosissima star Eugene Domingo, la cui collaborazione potrebbe portare ad una svolta decisiva la pre-produzione della pellicola e imprimere una positiva accelerazione nella carriera dei giovani cineasti.
Nel frattempo rivedono più volte quella sequenza, ogni volta cambiando qualcosa, ad esempio con la presenza di un'attrice differente, una più anziana e materna, o una più giovane e bella.

Vediamo e rivediamo quella sequenza, prove di cinema in fieri, e ogni volta le immagini assumono sfumature diverse: lo stile fluido e inquietante di una macchina da presa che carrella dentro le baracche del quartiere più povero di Manila, che segue i personaggi con la steadycam, oppure lo stesso percorso con il nervoso balbettio della macchina a mano? Cos'è più patetico, cosa può colpire di più gli spettatori? La riflessione del regista non è puramente formale, ma si sofferma sulla posizione etica dello sguardo: quando si oltrepassano i limiti e si forzano le emozioni degli spettatori verso un indirizzo fatto di compatimento e pietà, allora l'artista, mostrando la sua insincerità e i limiti della sua creatività, ricalca stilemi consolidati senza imprimere personalità nelle immagini. Il ritratto di questi giovani alla ricerca di gloria nell'infame mondo del cinema indipendente è al vetriolo: ragazzi che non riescono a districarsi da un modo di vedere i film stereotipato e che finiscono per compromettere sempre di più anche la loro autonomia artistica. Ed è anche sotto quest'aspetto che il film di Marlon Rivera si rivela riuscito: il mockumentary sui cineasti esordienti è tanto costruito quanto rispecchia situazioni possibili e realiste, mentre la sceneggiatura di With Nothing (il titolo del film nel film), costruita a tavolino con sapienza (difatti piace a tutti, e il produttore immagina già il Kodak Theater), ha bisogno di essere il più realista possibile in maniera del tutto esteriore (le comparse devono essere poveri, le baraccopoli devono fare da set, la fossa settica deve essere vera, gli amplessi fisicamente compiuti).
Libero nello stile, visti i continui cambiamenti di ispirazione, ma realizzato in bassa definizione con una camera miniDV, il satirico j'accuse di Rivera ha almeno tre picchi: l'incontro col più famoso regista filippino che torna dal festival di Venezia (con caustica ironia nei confronti della sua figura da parvenu, che non sa l'inglese né conosce i posti dove ha la fortuna di andare); le scene 36-40 riviste in versione musical, con balletti tra le baracche, canzoni strappalacrime e il coro dei poveri intorno alla superstar protagonista; il colloquio con Eugene Domingo, che si prende in giro con maestria e notevole autoironia.
Dopo le aggiunte melodrammatiche e retoriche dell'attrice, alle quali produttore e regista non riescono a dire di no, rimane un ulteriore dubbio nella testa della Domingo: la scena numero 7, dove dovrebbe cadere in una fossa settica riempita di scarichi fognari. La donna li convince a usare una sua controfigura, ma quando si trovano sul set inciampa e cade nella fossa: per non sprecare la verità di quel momento, Rainier inizierà a girare. E' l'efficace e spietato contrappasso che chiude il film-sorpresa della quattordicesima edizione del Far East Film Festival.