Il Far East 2012 tra crisi e nuovi percorsi

Se la difficile congiuntura economica ha portato a una riduzione numerica delle pellicole in cartellone, è da dire che questa quattordicesima edizione del festival friulano ha mostrato, proprio nelle inquietudini da essa generate, le sue suggestioni migliori.

Se si dovesse giudicare solo dall'affluenza di pubblico e dalla qualità della partecipazione alla manifestazione, entusiastica e competente come ogni anno, ci sarebbe da sposare in pieno le parole di Sabrina Baracetti, del Centro Espressione Cinematografiche, riguardo all'edizione appena conclusa del Far East Film Festival: la parola "crisi" non abita a Udine, e riguardo alla manifestazione friulana non va neanche pronunciata. Da osservatori, non possiamo però prescindere dalla realtà di una congiuntura economica difficile, che ha coinvolto il cinema nel suo complesso (ivi compreso quello proveniente dall'Estremo Oriente) e, in Italia, la realtà delle manifestazioni culturali, specie di quelle più settoriali, falcidiate dai tagli e avversate da una mentalità secondo la quale, tanto per citare le infelici parole di un nostro ex ministro, "con la cultura non si mangia". Così, il più importante festival europeo dedicato al cinema asiatico ha visto ridursi drasticamente le sue risorse, e di conseguenza la consistenza della sua proposta: dalle 87 pellicole dell'edizione 2011 siamo passati alle 57 dell'edizione appena conclusasi, con un dimagrimento spalmato un po' su tutti i paesi rappresentati, e anche sulla parte di festival dedicata al passato, che quest'anno si è limitata alla retrospettiva (comunque di gran livello) sui registi sudcoreani degli anni '70, intitolata The Darkest Decade.

La realtà della crisi ha finto comunque per influenzare non solo la quantità dei film proposti, ma anche le loro tematiche e la fisionomia stessa della manifestazione: ed è forse, un po' paradossalmente, proprio questo aspetto a darci le indicazioni più interessanti per valutare questa edizione del 2012. Abbiamo già affrontato (nell'articolo a cui rimandiamo) la presenza di temi politici, o comunque fortemente radicati nel sociale, in gran parte delle pellicole presenti quest'anno a Udine: si può qui aggiungere che le opere più riuscite sono risultate proprio quelle che (ovviamente non senza qualche forzatura) potremmo considerare meno "da Far East", più portatrici di un'impronta autoriale e di tematiche di un certo spessore. Due splendidi esordi come il giapponese The Woodsman and The Rain di Shuichi Okita, apologo sul potere del cinema e affresco dell'immobilismo delle realtà sociali del Giappone rurale, e il cinese Song of Silence di Chen Zhuo, dramma lirico, seppur pessimista, che tratta i temi del disagio sociale e familiare nella Cina contemporanea, sono in questo senso esemplari. Persino negli esempi di film di genere più riusciti non manca un impronta fortemente personale o la trattazione di temi di spessore: per fare un esempio, un regista da sempre molto amato a Udine come Pang Ho-Cheung è stato presente quest'anno con ben tre film, tutti e tre espressione di una visione di cinema (pur declinata in modo molto diverso dall'uno all'altro) che lo colloca a ragione tra gli autori di Hong Kong nel senso europeo del termine. Anche un classico legal drama come il coreano Unbowed non manca di affondare il coltello, con dovizia di particolari, nelle contraddizioni del sistema giudiziario di un paese in cui non mancano, evidentemente, residui dello spietato regime di un trentennio fa.
Le inquietudini, figlie della crisi, serpeggianti nelle pellicole in cartellone non hanno mancato di riverberarsi sulle preferenze del pubblico. La vittoria dell'Audience Award di una pellicola come il coreano Silenced, dramma sugli abusi subiti dai piccoli studenti di un istituto per sordomuti (per quanto possa lasciarci perplessi un'opera come quella di Hwang Dong Hyeuk, a nostro parere ben lungi dall'essere perfetta) va probabilmente letta in questo senso. Il consenso accordato anche a una pellicola più "leggera" (ma non mancante di uno sguardo acuto e sarcastico sul Giappone moderno) come il sorprendente Thermae Romae, non contraddice questa linea di tendenza. A deludere (e a ragione) il pubblico di Udine sono stati semmai i film più squisitamente di genere, quelli che un tempo rappresentavano il cuore del Far East: il sentimentale Romancing in Thin Air si è rivelato l'ennesimo prodotto alimentare (e neanche tra i migliori) di Johnny To; il thriller Nightfall ci ha lasciato abbastanza perplessi per una sceneggiatura obiettivamente scadente; l'action movie The Viral Factor di Dante Lam ha stordito gli spettatori con una sequela di roboanti scene d'azione tali da non lasciare tregua, tenute però insieme da una narrazione di una esilità sconcertante. Solo nel fantasy East Meets West 2011 di Jeffrey Lau (oltre che nei già ricordati Love in a Puff, Love in the Buff e Vulgaria di Pang Ho-Cheung) abbiamo ritrovato echi della tradizione migliore del cinema della ex colonia. Parlando di cinema di genere, dobbiamo poi segnalare la soppressione (comprensibile) dell'Horror Day, ma anche il commosso omaggio a Lilia Cuntapay, regina del cinema di serie B (soprattutto dell'orrore) di produzione filippina: il mockumentary Six Degrees of Separation from Lilia Cuntapay, per quanto imperfetto, incerto nella costruzione e a tratti noioso, riesce comunque a coinvolgere e a toccare il cuore di chiunque abbia simpatia per gli outsider dei vari star system cinematografici, di tutte le latitudini. Le stesse Filippine, sempre nell'ultima giornata del festival, hanno offerto anche il metacinematografico e irresistibile The Woman in the Septik Tank dell'esordiente Marlon Rivera, perfetta parodia di quel "poverty porn" (il cinema che spettacolarizza il disagio sociale) tanto praticato in quella cinematografia.
Dopo un'edizione come quella appena conclusasi, che è riuscita nel complesso a difendersi molto bene da circostanze tali da mettere a rischio manifestazioni meno strutturate e consolidate, viene logico auspicare, per il quindicesimo anniversario che cadrà tra un anno, un vero e proprio rilancio. Chi scrive ha da sempre le proprie idee sulla strutturazione del concorso e sull'opportunità di affiancare ai premi del pubblico un riconoscimento assegnato da una vera giuria; ma, in fondo, non è questo ciò che conta in questo frangente. Quello che è giusto attendersi per la prossima edizione, semmai, è una sottolineatura (anche nella proposta) dell'importanza e del radicamento nel tessuto cittadino di una manifestazione che ha ormai 15 anni di vita, e che in 15 anni ha portato lustro, e risorse economiche, alla città che la ospita. Ci si aspetta quindi una selezione dal taglio "speciale" anche nelle retrospettive (magari recuperando la sede, quest'anno accantonata, del cinema Visionario) e in generale un programma che sappia valorizzare la storia del Far East senza essere autocelebrativo; ma ci si aspetta anche, da provincia e regione, il riconoscimento (scontato in teoria, ma non nei fatti) del valore di questo festival, e il conseguente sostegno economico che quest'anno è mancato. Perché, se è vero che va sfatato (una volta per tutte) il luogo comune citato in apertura, per cui "con la cultura non si mangia", è anche vero che la cultura stessa ha bisogno di risorse e sostegno per poter vivere, prosperare ed essere fonte di sviluppo.