Ci vuole pazienza nel gioco del tennis, così come ci vuole pazienza (e un briciolo di fortuna) a superare indenni i set stabiliti da una partita come quella della vita. Con le nostre racchette sfidiamo il destino, tra dritti e rovesci, scivolate e urla. L'avversario è tosto, un giocatore che pare sempre anticipare ogni nostro gesto, conoscere la nostra tecnica. Eppure, continuiamo a battere, a replicare, cercando il punto, aspirando al match point. Il tutto mentre la pallina vola, rimbalza e riparte; toccando le due metà campo, quella pallina non è più un oggetto tangibile, ma si investe di un significato altro, quello di decisioni atte a stabilire il corso del nostro cammino, la natura della nostra esistenza.
"There are two paths you can go by, but in the long run, there's still time to change the road you're on" cantavano i Led Zeppelin, ma sotto lo sguardo del pubblico astante, nella nostra partita contro il destino non esistono strade alternative da prendere, solo piani B, improvvisazioni, ace inaspettati, volée imprendibili e imprevedibili. E in quella proiezione diretta di una realtà come quella che ci ingloba, ci modella, che è il cinema, anche il tennis si spoglia del suo significato denotativo per investirsi di significati altri. Non più sport da seguire sugli spalti della sana competizione, ora il tennis al cinema viene desemantizzato del suo significato primario per andare a simboleggiare ombre minacciose dell'essere umano. Un gioco contro le proprie ossessioni e/o con gli ostacoli imposti dalla società circostante: il tennis al cinema si fa contenitore di vizi e virtù, debolezze e fragilità, tutte raccolte nello spazio di una pallina che ora vola, corre, lanciata da una metà campo all'altra, nell'attesa di un punto vincente, di un advantage finale sul proprio avversario. Quel destino che alla fine solo noi decidiamo se essere nefasto, o complice.
Challengers, o la partita al controllo
Tashi Duncan non è più la grande promessa del tennis. Non lo è più e non perché infortunata, segnata nel corpo e nell'anima da una rottura ossea, ma perché tra le mani di Luca Guadagnino la grande stella del tennis si fa adesso un Mangiafuoco dell'esistenza. Come un sadico burattinaio, la giovane prende le fila di uomini a lei attratti, conquistati, dipendenti, per muoverli a proprio piacimento. Se deve limitarsi al ruolo di allenatrice e motivatrice, tanto farlo sia dentro che fuori il campo da tennis. E così la giovane manipola, chiede, esige, alimentando la competizione, deflagrando amicizie. Il gioco del tennis in ## Challengers (qui la nostra recensione) non si fa più solo e soltanto sfida a due, ma rapporto a tre: un ménage non solo vissuto tra i suoi protagonisti, ma anche tra i vertici essenziali di un triangolo cinematografico come quello che lega insieme attori, regista e spettatori.
La scala di erotismo si fa sempre più ripida, sempre più vertiginosa, mentre il tennis si spoglia della sua natura sportiva per abbigliarsi di ossessione, controllo, dominio. Il sesso fa capolino, ma è solo un pensiero stupendo, un attimo che sfiora la pelle rabbrividendo, eccitando. Tutto in Challengers è lasciato alla potenza del substrato psicologico, a quelle fila tessute e manovrate da Tashi, per cui il tennis e la sua adrenalina vanno a riverberare manipolazioni mentali, coercizioni che una donna come quella interpretata da Zendaya (Lady Macbeth le cui mani non sono più rivestite da sangue, ma da sudore e palline da tennis) compie ai danni di uomini che solo nell'unione finale, ritrovano un equilibrio, un'amicizia perduta, recidendo finalmente quei legami da altri imposti, da altri segnati.
Challengers, la spiegazione: e se il film di Guadagnino fosse un Dawson's Creek più cool?
Match Point, il punto dell'ossessione
"La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po' di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde". Sta tutto qui, in questo incipit così incisivo, il senso della vita per il Woody Allen di Match Point. Attraverso la voce del suo protagonista, il regista redige il suo manifesto sull'ossessione umana, su quel tarlo mentale che tutto intacca e investe di malsana affezione, generando fisime sentimentali, portando morte. Quella pallina per Chris Wilton (Jonathan Rhys Meyers) toccherà il nastro per poi tornare indietro, aprendo un varco su un inferno personale dove la dipendenza affettiva, l'incapacità di gestire le proprie emozioni, lanceranno l'uomo in un vortice interno sospinto da aliti di ambizione, e venti di nefasto destino.
Tra le mani di Woody Allen il tennis si fa pertanto metafora perfetta di una scalata sociale intessuta di tradimenti, seduzioni, di una passione sfrenata che tutto minaccia e distrugge. Campo da gioco imbastito di citazioni e omaggi (da "Delitto a Castigo" di Fedor Dostoevskij, a "Bel Ami" di Guy de Maupassant) quella di Match Point è una partita dove a vincere è il dominio maniacale e la mortifera ossessione, mentre il triangolo amoroso segnato da tradimenti e sentimenti effimeri, fisici e corporei, soccombono dinnanzi a una palla break decisiva, lanciata con precisione dalla caduta morale del genere umano.
La battaglia dei sessi e le diseguaglianze di genere
La battaglia dei sessi non è un semplice biopic, ma non è nemmeno un semplice film sul tennis. Quella compiuta dai registi Jonathan Dayton e Valerie Faris è una sovrapposizione di più livelli, sostrati tematici e di genere che rendono difficile la semplificazione archivistica del film entro i confini di un'unica categoria cinematografica. Nel raccontare la storica sfida tennistica tra Billie Jean King e Bobby Riggs, le vesti di biopic sportivo scivolano via, lasciando spazio alla sua natura più autentica di film politico, drammatico e comico. La scoperta della propria omosessualità, o la diseguaglianza tra uomini e donne, si fanno adesso tematiche e tessere di pregiudizi universali, che ancora oggi, a distanza di quarant'anni, rimangono attuali e difficili da abbattere. Allora ci pensa il cinema a far luce su un mondo che denuncia la mancata parità delle donne nei confronti del genere maschile, e su quell'incapacità generalizzata di accettare l'amore in tutte le sue forme, senza paura, o remore. Jonathan Dayton e Valerie Faris decidono pertanto di scrivere il proprio saggio di carattere socio-culturale sfruttando il tennis come semplice pretesto, vettore privilegiato per temi e argomenti molto più profondi, capaci di scuotere e toccare la sensibilità altrui.
I due affidano allora la propria visione del mondo a una sfida che da sportiva si fa proiezione di due mondi distinti di affrontare la vita, e vivere la società circostante: da una parte abbiamo l'ex campione di tennis, Bobby Riggs (uno straordinario Steve Carell), figlio di una società misogina e dalla mentalità ancora sessualmente ottusa, che non ha paura di dimostrare la superiorità del sesso maschile su quello femminile. Dall'altra ecco comparire Billie Jean King (Emma Stone), una delle più grandi campionesse al mondo, ma anche portavoce del movimento femminista all'interno della sfera sportiva. A fare da contorno alla realizzazione di questa "battaglia dei sessi", sono le autentiche partite giocate nell'intimità personale e domestica dai due protagonisti: c'è quella di Billie Jean, che malgrado l'apparente appagamento per un matrimonio felice e tutto sommato solido, si innamora della bella parrucchiera Marylin (Andrea Riseborough), e quella di Bobby, incapace di far convivere la propria ossessione per le scommesse con un matrimonio ormai agli sgoccioli. La battaglia dei sessi si fa dunque proiezione visiva di tutte le lotte che noi tutti combattiamo quotidianamente. Sta a noi scegliere se affrontarle nei panni di una Billie Jean King, o di un Bobby Riggs. L'importante, comunque, è uscirne vincitori.