Catastrofi oggi
La scommessa di Cloverfield aveva una posta decisamente alta. E non mi riferisco certo (solo) al carico d'aspettative create ad arte attraverso i mesi di martellante campagna di marketing virale, ma alla sfida non da poco di realizzare oggi, ancora in pieno post 11/9, un monster-movie, un film catastrofico, peraltro ambientato in quel di New York. Ma il regista Matt Reeves ed il diabolico produttore J.J. Abrams la loro scommessa la vincono a mani basse.
La vincono per due motivi, o, se volete, su due differenti livelli: il primo è quello di un film che gli anglosassoni definirebbero "a hell of a ride", teso e avvincente, in grado di catturarti e di stupirti per la spettacolarità delle scene, per la misura e l'intelligenza con le quali mostro e distruzioni vengono mostrate (o non mostrate), in grado di farti appassionare alle vicende dei giovani protagonisti; il secondo - e conseguente - è quello di un film che per stile, forma e scelte narrative si rivela l'unica via possibile al cinema catastrofico dopo il crollo delle Torri Gemelle.
La domanda da farsi (e che i realizzatori di Cloverfield si sono evidentemente fatti) è infatti come rappresentare oggi catastrofi e minacce, come raccontare una storia di questo genere dopo tutto quello che i media (e non solo) hanno proposto e riproposto a partire da quel fatidico giorno di più sei anni fa. La risposta è appunto, semplicemente, Cloverfield.
Raccontato unicamente attraverso l'occhio di una videocamera digitale, che documenta l'impresa di alcuni amici impegnati nel disperato tentativo di salvare l'amata da uno di loro, Cloverfield ha il suo centro narrativo non nel mostro o nella devastazione della città di New York, ma nei suoi protagonisti, nei personaggi, nelle loro relazioni. Protagonisti che sono amici, fratelli, fidanzati, innamorati. Persone che devono fare i conti con i loro sentimenti prima ancora che con il disastro che gli si para di fronte. Per questo Cloverfield aspetta quasi 20 minuti prima di entrare in quel che si poteva ritenere il vivo della vicenda, prima di far apparire il mostro. Per questo l'incipit e le immagini finali sono tanto importanti e coinvolgenti. Per questo la creatura viene mostrata quasi sempre fugacemente e/o parzialmente, per questo non vengono date spiegazioni di sorta sulla sua origine. Perché parlare di questo, chiedersi da dove venga la creatura, può servire solo e soltanto a riempire il silenzio, per "evitare di farsela sotto", come dice Hud.
Dopo l'11/9 mostrare è sostanzialmente inutile, poiché nulla che il cinema può rappresentare sarà mai tanto sconvolgente quanto quel che abbiamo visto quel giorno alla televisione. Certo, quel che Cloverfield mostra della New York devastata ci colpisce, ma - complici anche numerosi riferimenti più che espliciti (i crolli, le nuvole di polvere, i fogli che volano nell'aria) - la nostra immaginazione torna sempre lì. A quel che è già accaduto.
Quel che resta, quello che è sempre nuovo, imprevedibile, rinnovabile, siamo noi, sono i nostri legami, le persone care, i nostri sentimenti. E la scelta della videocamera non serve solo a rimandare ai documenti reali dell'11/9 ma è funzionale alla memoria: alla necessità di raccontare non un evento, ma delle persone, la loro vita, i loro sentimenti. La loro morte.
È questa l'operazione di Cloverfield, che pur a livello epidermico di grande impatto e coinvolgente per gli effetti speciali, in un ipotetico spettro che vada dal Godzilla di Emmerich a The Host di Bong si pone a ridosso del film coreano, che allo stesso modo raccontava una storia intima e umana nel contesto di un monster movie grandioso e spettacolare.
Quella di Reeves - cui tra l'altro va riconosciuto il merito di aver fatto sembrare davvero casuali e rubate immagini invece registicamente studiatissime - è un'operazione di grande intelligenza. Forse scontenterà i più accaniti sgranocchiatori di pop corn, chi si aspetta un film alla Bruckheimer. Ma magari servirà anche a farli riflettere, il che non guasta mai.