"Dimmi James, li ricordi tu i bei giorni andati?" "Ogni anno che passa sempre di più, Billy."
Quando, il 19 novembre 1980, I cancelli del cielo debutta nelle sale americane, il suo disgraziato destino appare già irrimediabilmente segnato. Le reazioni della stampa di fronte a questo monumentale kolossal di tre ore e quaranta minuti, frutto di sei mesi di riprese e un anno di post-produzione, si sono rivelate a dir poco fredde, e il senso di fallimento è ormai nell'aria. Ma Michael Cimino, determinato comunque a far sì che il suo terzo lungometraggio raggiunga il pubblico più vasto possibile, convince la United Artists a ritirarlo dai cinema dopo appena una settimana, per avere il tempo di tornare in sala di montaggio e ridurne la durata a due ore e mezza, nell'intento di renderlo più accessibile agli spettatori.
Le speranze del regista si riveleranno vane. Quando, il 24 aprile 1981, I cancelli del cielo ricompare nelle sale statunitensi, gravato dalla pessima reputazione acquisita nel frattempo, il disastro è senza appello: alla feroce riprovazione della critica si aggiunge l'indifferenza del pubblico, con un incasso di tre milioni e mezzo di dollari a fronte di un costo di quarantaquattro milioni. Un mese più tardi, complice probabilmente il flop di Cimino, la United Artists viene venduta alla MGM; negli stessi giorni I cancelli del cielo è in concorso al Festival di Cannes, dove l'accoglienza si dimostra assai più benevola. È la fine di un'epoca, ma anche l'inizio di una sacrosanta riabilitazione che richiederà moltissimo tempo, e che probabilmente dura tutt'oggi.
Il capolavoro mutilato di Michael Cimino
Sacrosanta perché, a dispetto della propria infausta nomea, I cancelli del cielo è un film meraviglioso. Lo era già nella versione 'mutilata' in cui fu proiettato negli Stati Uniti nella primavera del 1981, pur contrassegnata da incongruenze narrative e dai repentini cambi di ritmo di tutta la parte finale; nella versione originaria di quasi quattro ore, restaurata nel 2012 e presentata alla Mostra di Venezia, è un capolavoro. Un capolavoro che nel 1980 poteva apparire fuori tempo massimo, o semplicemente fuori dal tempo: se appena un anno prima Francis Ford Coppola aveva trasformato Apocalypse Now, altra travagliatissima impresa produttiva, in un (logorante) trionfo personale, il fiasco de I cancelli del cielo è il certificato di morte della New Hollywood, l'ideale chiusura di un periodo di irripetibile libertà creativa per un'intera generazione di cineasti.
Di questi registi-autori, Michael Cimino aveva reclamato il titolo di capofila nel 1978 quando Il cacciatore, il suo raggelante affresco dell'America ai tempi del Vietnam, si era imposto come il film-evento dell'anno e si era aggiudicato cinque premi Oscar. Ma quegli stessi spettatori che si erano lasciati conquistare da Il cacciatore, indagine fra le cicatrici di un trauma ancora impresso nella memoria collettiva, non provarono lo stesso trasporto per I cancelli del cielo e la sua rievocazione della Johnson County War, un episodio sepolto nelle nebbie della coscienza di una nazione: un conflitto che fra il 1889 e il 1893, nella cornice delle montagne del Wyoming, oppose i piccoli agricoltori e allevatori della Contea, fra cui numerosi immigrati, alle associazioni dei grandi proprietari, pronti ad assoldare bande di pistoleri mercenari allo scopo di far massacrare la 'concorrenza'.
Ricordando Michael Cimino: l'affresco di un'America fra bellezza e violenza
America 1890: sterminateli senza pietà
Michael Cimino recupera dunque una delle pagine più controverse della storia americana e ne fa lo scenario di un'opera fluviale, ancor più complessa di quanto non fosse già Il cacciatore. Un'opera che attraverso lo sguardo del Jim Averill di Kris Kristofferson, lo Sceriffo di Johnson County, ridisegna l'immaginario western del cinema classico, spogliando il mito della Frontiera del suo alone eroico per raffigurarne invece il sanguinario rovescio: la strage dei contadini e degli allevatori locali consumata in nome del profitto, con il tacito consenso della politica. Non siamo però nei territori del western revisionista e crepuscolare del decennio precedente, quelli de I compari di Robert Altman o Pat Garrett e Billy the Kid di Sam Peckinpah; I cancelli del cielo appare davvero troppo ampio e troppo ricco di influenze per essere racchiuso entro i confini di un singolo genere.
Ne Il cacciatore, i cui protagonisti appartenevano alla classe operaia della Pennsylvania, Cimino raccontava la perdita dell'innocenza di un'America costretta a fare i conti con l'orrore del Vietnam e con gli spettri della guerra. Ne I cancelli del cielo, il "paradiso perduto" è il sogno americano: dalla fiducia positivista espressa dal prologo, con la festosa cerimonia di laurea ad Harvard nel 1870 (giusto alla vigilia dello scoppio della Guerra di Secessione), il percorso di Jim Averill balza di colpo a vent'anni più tardi, al contrasto fra l'idillio di una comunità rurale del Wyoming - con un'altra, spettacolare scena di ballo sulla pista di pattinaggio chiamata appunto Heaven's Gate - e la minaccia incombente, incarnata dallo spregiudicato Frank Canton di Sam Waterston e dalla sua "lista nera".
Il cacciatore: il Vietnam e l'America nel capolavoro di Michael Cimino
La ballata di Jim, Ella e Nate
Se il discorso politico elaborato da Michael Cimino ritorna al topos della violenza fondativa, alla demistificazione di un capitalismo disumano sotto i cui vessilli saranno versati fiumi di sangue, il respiro della narrazione è però quello del melodramma, declinato ovviamente in un'ottica in grado di amalgamare i modelli classici (Via col vento, Luchino Visconti) con il realismo ruvido e vitalistico della New Hollywood. E il melodramma si accende attorno al più canonico degli archetipi, il triangolo di amori contrastati e di amicizia tradita (e poi riscattata) fra i tre personaggi-chiave del film: l'integerrimo Jim Averill; Ella Watson, prostituta canadese ispirata alla fuorilegge soprannominata Cattle Kate, con il volto di Isabelle Huppert; e Nate D. Champion, il cowboy mercenario interpretato da Christopher Walken.
Walken, lanciato due anni prima da Cimino grazie al ruolo di Nick Chevotarevich ne Il cacciatore, qui indossa una maschera ambigua e sottilmente inquieta, dietro la quale si cela un profondo dissidio morale: la scelta di campo di Nate, assoldato dalla Wyoming Stock Growers Association, sarà messa in crisi anche dal suo rapporto con Nate ed Ella, e il sacrificio finale dell'uomo, al di là della sua valenza ideologica, costituisce un'inaspettata prova di lealtà e un commovente esempio di redenzione.
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Il paradiso perduto
A fare da perno di quest'amicizia virile è invece Ella, la giovane immigrata che nella "terra delle opportunità" ha fondato un bordello, prendendo così in mano le redini della propria esistenza. Si tratta di una delle figure più memorabili e 'luminose' del cinema di Michael Cimino, il quale lottò con la United Artists per poter ingaggiare Isabelle Huppert dopo esserne rimasto folgorato in Violette Nozière; e la Huppert, a un passo dal diventare la primadonna del cinema d'autore europeo, ne delinea un ritratto formidabile, avvolgendo la sua Ella di un'aura di magnetismo in cui si mescolano una gioiosa innocenza, un fascino dal vago mistero e la grinta incrollabile della cowgirl che non esita a impugnare le armi e balzare a cavallo per difendere il suo piccolo regno.
Non è un caso, del resto, che l'immagine-simbolo del film resti l'abbraccio fra Jim ed Ella a Heaven's Gate, incorniciati dalla luce di Vilmos Zsigmond. Zsigmond, che aveva già 'dipinto' il Far West innevato de I compari di Altman (e poi in seguito Incontri ravvicinati del terzo tipo e Il cacciatore), realizza per Cimino una fotografia portentosa, i cui toni seppiati restituiscono appieno il senso di matericità dei luoghi, la selvaggia malinconia del Wyoming, i raggi del sole che si fanno spazio nella polvere: l'ennesimo, abbacinante miracolo di un film straordinario, risorto da un tragico destino per reclamare il suo posto nel canone del miglior cinema americano dell'ultimo mezzo secolo.
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