Life is a cabaret, old chum/ Come to the cabaret!
È un ghigno deformato dal riflesso di un vetro la prima immagine che ci viene presentata in Cabaret; un secondo più tardi il volto di Joel Grey, il maestro di cerimonie del Kit Kat Klub, si gira verso di noi per offrirci il suo Willkommen, mentre la penombra dell'inquadratura iniziale cede il posto al rosso acceso del soffitto. L'impressione di una realtà alterata è rimarcata dal controcampo sull'auditorio: la donna seduta al tavolo, in una posa innaturalmente plastica, riproduce il Ritratto della giornalista Sylvia von Harden del pittore Otto Dix. "Lasciate fuori i vostri problemi", è l'invito del maestro di cerimonie: il cabaret - e il film ce lo dichiara fin dal folgorante incipit - è un luogo fuori dal mondo e dai suoi drammi, un paradiso artificiale in cui "la vita è meravigliosa" e ci si può abbandonare ad una viziosa spensieratezza.
Nel montaggio parallelo dei cinque minuti d'apertura, all'esibizione delle ballerine del Kit Kat Klub si alterna l'arrivo a Berlino di Brian Roberts, un giovane accademico inglese che muove i suoi primi, timidi passi nella capitale tedesca, per poi bussare all'alloggio dell'americana Sally Bowles. Brian, che in Cabaret ha il viso limpido di Michael York, è l'alter ego dello scrittore Christopher Isherwood, che nel 1939, nel memoriale Addio a Berlino, rievocava il periodo trascorso in Germania all'alba del decennio, durante gli ultimi anni della Repubblica di Weimar. Dal libro di Isherwood sarebbe stato tratto nel 1951 il dramma teatrale I Am a Camera e, quindici anni più tardi, il musical Cabaret, portato a Broadway da Harold Prince con canzoni di John Kander e Fred Ebb e libretto di Joe Masteroff. È il 13 febbraio 1972 quando, sull'onda del successo raccolto sui palcoscenici americani, Cabaret approda al cinema, affidato alla regia di uno specialista del teatro musicale: Bob Fosse.
Bob Fosse e la rivoluzione del musical
Quarantaquattrenne, nato a Chicago da genitori di origini europee, nel 1972 Bob Fosse può vantare la coreografia di una decina di spettacoli di Broadway, di cui quattro diretti da lui stesso. Nel 1969 aveva debuttato dietro la macchina da presa proprio con l'adattamento di un musical teatrale: Sweet Charity, rivisitazione de Le notti di Cabiria firmata da Neil Simon e con protagonista Shirley MacLaine, andando però incontro a un pesante fiasco commerciale. Cabaret, sceneggiato da Jay Presson Allen, è il secondo dei cinque film diretti da Fosse, e il suo capolavoro: all'entusiasmo del pubblico (circa cinquanta milioni di spettatori in tutto il mondo) seguirà una pletora di riconoscimenti, fra cui tre Golden Globe e otto premi Oscar, incluso il trofeo per la miglior regia. Nel decennio che, dopo gli ultimi fuochi degli anni Sessanta, aveva sancito il tramonto del musical classico hollywoodiano, Cabaret segnava una frattura totale con la tradizione: un punto di non ritorno e un modello per tantissimo cinema a venire.
Nella trasposizione di Bob Fosse e Jay Presson Allen, tutti i numeri musicali sono inseriti nella cornice del Kit Kat Klub, spazio dai contorni grotteschi e con sfumature quasi oniriche, in cui ogni performance corrisponde a una celebrazione di sfrenato edonismo: dalla lascivia di Mein Herr e Two Ladies all'ode al denaro che "fa girare il mondo" nell'irresistibile Money, Money, cantata in duetto da Joel Grey con la Sally Bowles di Liza Minnelli e scritta da Kander ed Ebb appositamente per il film. Il dinamismo della regia di Fosse e del montaggio di David Bretherton vanno in direzione opposta rispetto alla composta eleganza dei musical della Golden Age, riscrivendo letteralmente regole e convenzioni del genere: la straordinaria modernità di Cabaret consiste anche nel modo in cui le canzoni e le coreografie sono messe al servizio di un racconto in cui la componente sentimentale del rapporto fra Brian e Sally si coniuga a una natura inesorabilmente cupa, via via più evidente con il passare dei minuti.
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Brian, Sally e l'ascesa del nazismo
Al fascino discreto e a tratti impacciato del Brian di Michael York, al suo sguardo 'alieno' sulla Berlino del 1931, fa da contraltare il carisma esplosivo di Sally Bowles, volitiva entertainer a cui dà volto e voce una strepitosa Liza Minnelli, ricompensata con il premio Oscar come miglior attrice. Figlia d'arte di Vincente Minnelli e Judy Garland, dopo aver già mostrato il proprio talento nel 1969 in Pookie di Alan J. Pakula, con Cabaret la venticinquenne Liza consegna il ruolo di Sally all'immaginario collettivo: con il suo caschetto nero ispirato a Louise Brooks, la fisicità prorompente e un'espressività in costante equilibrio tra ironia ed enfasi, Sally Bowles è il cuore pulsante del film. Accanto ai due protagonisti si ritaglia spazio la coppia formata dall'aspirante gigolò Fritz Wendel (Fritz Wepper) e dalla sofisticata e altezzosa Natalia Landauer (Marisa Berenson), mentre l'aristocrazia decadente della Germania di Weimar è incarnata dal Baron Maximilian von Heune del mellifluo Helmut Griem, la cui opera di seduzione si estenderà da Sally allo stesso Brian.
Ma gradualmente, la dimensione privata dei personaggi si intreccia con la prospettiva storica dell'intera società tedesca. Mentre una Sally euforica spende il suo tempo in compagnia del ricco Max, un cadavere giace in mezzo a una strada, sotto gli occhi di berlinesi immobili; all'idillio bucolico fra Sally, Brian e Max, subito dopo il loro ménage à trois, si sovrappone un coro di ragazzi in divisa nazista che intonano Tomorrow Belongs to Me, apologia del nazionalismo della futura "gioventù hitleriana". "I nazisti non sono che una banda di stupidi fanatici", è la chiosa sbrigativa di Max, convinto che il fenomeno si esaurirà una volta che sarà servito a spazzar via i comunisti. Si tratta dell'unico riferimento esplicito al contesto politico dell'epoca, ma Cabaret riesce comunque a dipingere con agghiacciante precisione un affresco della Germania alla vigilia della catastrofe: tutto il film è corredato di presagi funesti, come oscure pennellate che è impossibile far sparire dalla tela.
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Life is a cabaret
L'ambiguità del paese nei confronti del nazismo trova inoltre una personificazione emblematica nella figura del maestro delle cerimonie, in quel sorriso sardonico che sembra canzonare la presunta inconsapevolezza collettiva del Male in incubazione. Non si tratta di un personaggio 'autentico': il maestro non esiste al di fuori del Kit Kat Klub e non esce mai, neppure per un istante, dal suo ruolo di intrattenitore. Ma Joel Grey, premiato con l'Oscar come miglior attore supporter, lo trasforma in una creatura tanto seducente quanto sottilmente demoniaca: una maschera di gioconda, disinibita perversione. In If You Could See Her, il maestro delle cerimonie si esibisce su una tenera melodia da vaudeville accanto al gigantesco pupazzo di un gorilla, simulando tenerezze romantiche; parrebbe un'innocua boutade, se non fosse che il numero si chiude sulla ferocia antisemita del verso "She wouldn't look Jewish at all".
La canzone successiva, nonché quella di gran lunga più celebre, è Cabaret, affidata all'interpretazione poderosa di Liza Minnelli. Dopo l'addio a Brian, Sally è di nuovo sul palco del Kit Kat Klub, esortando il pubblico ad "assaggiare il vino, ascoltare l'orchestra" anziché prestare orecchio ai "profeti di sventura"; poi le luci si spengono, e Sally rimane immersa in un cono d'ombra mentre ricorda la defunta amica Elsie, "il cadavere più felice che abbia mai visto", per concludere infine la sua performance con una frenesia dirompente quanto, in fondo, disperata. Il commiato spetta ovviamente al maestro delle cerimonie, che torna a rivolgersi alla "quarta parete" per il suo Auf wiedersehen. Su un rullo di tamburi, il riflesso distorto del vetro ci mostra la sala del Kit Kat Klub e le sagome delle Camicie Brune, fino a mettere a fuoco un unico, terribile dettaglio: l'immagine della svastica, l'atroce presagio diventato realtà.
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