Recensione Il cacciatore di aquiloni (2007)

Il regista di Neverland dimostra per l'ennesima volta di sentirsi più a suo agio con certi elementi poetici, che trovano poi la giusta collocazione in una messinscena colorata e immaginifica.

C'era una volta in Afghanistan

Visto il successo riscosso a livello mondiale dal romanzo di Khaled Hosseini ciò potrebbe suonare lapalissiano, ma per l'adattamento cinematografico de Il cacciatore di aquiloni il motivo primario d'interesse rimane la solidità della costruzione drammaturgica, la forza di un racconto ricco di pathos. Per quanto riguarda invece la regia di Marc Forster, siamo alle solite. Quand'anche nel film vi siano scene che si lasciano apprezzare per la loro riuscita, soprattutto a livello visivo, non sono certo poche le furberie, le scorciatoie e le semplificazioni narrative poste in atto da un autore che, tra alti e bassi, offre raramente l'impressione di essere realmente ispirato.

Torniamo comunque al caso letterario rappresentato dall'opera di Khaled Hosseini, autore in tempi più recenti di un altro best-seller, Mille splendidi soli. Al medico e scrittore afgano va senz'altro il merito di aver saputo rievocare, con tono accorato e intimamente partecipe, quella Kabul degli anni '70 che costituisce qui il tessuto connettivo di ogni significativo ricordo. La Kabul di cui si legge all'inizio de Il cacciatore di aquiloni è quella di prima dell'invasione sovietica, ovvero il cuore pulsante di un paese che sarebbe poi passato, dopo l'esperienza dell'occupazione militare russa, attraverso mille altre tragedie: dalle lotte intestine tra fazioni riconducibili a differenti gruppi etnici ai bombardamenti americani, passando ovviamente per le violenze e gli atti di intolleranza imposti dal regime talebano.
Senza mascherare una forte impronta autobiografica, Khaled Hosseini osserva l'Afghanistan del recente passato con lo sguardo nostalgico dell'esule, che rielabora così esperienze della propria infanzia, resistendo però alla tentazione di smussarne gli aspetti più spigolosi. Le tensioni si avvertono, eccome, amplificando la presa emotiva del racconto. Il cacciatore di aquiloni è del resto la storia di un'amicizia disattesa in età infantile, a causa di eventi le cui conseguenze continueranno a pesare sul destino di entrambi i protagonisti. Si parla di Amir, figlio di uno dei pashtun più influenti della capitale, e di Hassan, figlio invece del suo fedele servitore di etnia hazara. Tra momenti di spensieratezza, come le vivaci battaglie di aquiloni sul cielo di Kabul, e crude anticipazioni delle violenze a venire, un grave episodio fa sì che la loro amicizia si incrini, mentre venti di guerra cominciano già a compromettere la stabilità delle loro vite. Ed il senso di colpa per le scelte poco coraggiose di un tempo non abbandonerà Amir nemmeno da grande, spingendolo così verso un possibile riscatto.

Gli ingredienti della narrazione, come si vede, sono quelli da cui un classico racconto di formazione può trarre afflato epico nella giusta misura. Peccato che la trasposizione cinematografica di Marc Forster sia tale da lasciare l'impresa a metà. Pur soggetto a significative variazioni spazio-temporali, l'ambiente sociale che fa da sfondo agli eventi tende ad essere monocromatico, di volta in volta troppo sereno o troppo fosco per convincere appieno; con esiti che diventano quasi caricaturali nell'Afghanistan controllato dai Talebani, in cui Amir è costretto a tornare da adulto. Il regista di Neverland - Un sogno per la vita dimostra per l'ennesima volta di sentirsi più a suo agio con certi elementi poetici, che trovano poi la giusta collocazione in una messinscena colorata e immaginifica; quella, per intenderci, che caratterizza Kabul nella prima parte del film, con i protagonisti ancora bambini. Qui l'euforia che accompagna le sfide aeree tra variopinti aquiloni sembra quasi rubare la scena a tutto il resto.

Il tono più dimesso della parentesi americana è esemplificativo, al contrario, delle difficoltà cui va incontro l'autore quando deve appoggiarsi a una cifra realistica, senza oscillare pericolosamente tra soluzioni ugualmente banali: ovvero una eccessiva sciatteria alternata a rappresentazioni particolarmente enfatiche; tali sono, a nostro avviso, quelle di cui vengono gratificate le milizie talebane, descritte anche visivamente in un modo che probabilmente si addice di più a qualche super-cattivo dei fumetti Marvel. Così va a finire che anche la scena potenzialmente disturbante di una lapidazione si trasformi in un piccolo e movimentato show mediatico. Laddove il cinema degli ultimi anni ci ha abituato ad una irruzione del reale ben più prepotente, e a dimostrarlo basterebbe The Road to Guantanamo dell'ottimo Winterbottom, le strade percorse da Marc Forster appaiono a tratti obsolete.