Recensione Piano, solo (2007)

Kim Rossi Stuart incarna Luca Flores, jazzista di talento, in un film che presenta molti limiti, ma che si rivela intenso e toccante.

Breve storia di Luca Flores

La vicenda del pianista Luca Flores è una storia strana, contorta, assolutamente fuori dal comune, eppure così ricca di una densa normalità, di un semplice desiderio di amare ed essere amati.
La rinuncia alla vita, il suicidio di Flores, non contiene quell'ultima ombra di disperazione che spesso si affaccia su tali vicende, ma si getta come un'insolita ombra di speranza, affermazione di una vita piena, sopra ogni cosa, nonostante tutto.

La storia del piccolo Luca è quella di un bimbo costretto a viaggiare per il mondo a causa del lavoro del padre, e che subisce un trauma indelebile a seguito della prematura morte della mamma, unico vero legame con una dimensione familiare autentica, deceduta a causa di un incidente stradale.
Il rapporto che riesce a tenere desto l'animo del bambino, che man mano cresce nel film, fino a diventare uomo, è quello con il pianoforte.
"Ho litigato con mio padre, non possiamo parlare, devo andare a suonare", afferma in una scena della pellicola, a sottolineare la carnalità e la decisività del rapporto con lo strumento.
Tutta la pellicola, che parla di musica jazz, di disagio mentale, di piccoli concerti e di grandi successi, è tesa a sottolineare la sottile discrasia che si apre nella vita del giovane pianista.
Il piano, involontariamente, di soppiatto, si insinua ovunque, permea e fagocita ogni luogo, ogni istante, escludendo sempre di più, tagliando sempre più fuori le persone che vivono, sbagliano, soffrono, intorno a Luca; il padre (Michele Placido), mancante per anni, ma ultimamente innamorato del proprio bambino; la sorella (Paola Cortellesi), vera e propria spalla di una vita; la ragazza (Jasmine Trinca), croce ma soprattutto delizia più alta, carnalità più presente in una traiettoria umana rarefatta.

Piano, Solo. Solo con il piano. Piano, lento, e solo. Solo il piano. Diverse le chiavi di lettura, tutte possibili, tutte calzanti, per un film che è tanto duro, controverso nelle sfumature che vuole comunicare, tanto è classico, senza possibilità di uscire dagli schemi dalla strada di una messa in scena ben articolata e congegnata, secondo gli stilemi classici del genere.
Riccardo Milani, dunque, traendo spunto da una pubblicazione di Walter Veltroni, costruisce un film impeccabile, che fa di questa sua costruzione precisa il suo pregio, ma anche il suo difetto. Cade infatti a volte in un didascalismo soffocante, cercando di emozionare e coinvolgere lo spettatore di più, al di là di quanto non sia possibile, lecito, creando l'effetto opposto.
Nonostante questo, grazie anche ad una complessiva buona prova attoriale (Kim Rossi Stuart, dopo una prima metà film assolutamente monocorde, esce alla distanza in modo egregio), alcune sequenze - quella morte della madre, come quella della deflagrazione della pazzia - raggiungono un livello di intensità notevole.

"Quasi non ho il coraggio di dirlo, ma sono felice", dice Flores, in uno degli ultimi momenti di sofferta lucidità. Una vita consacrata alla ricerca della felicità, della ricerca di qualcosa di più grande, ritrovato nel magnifico, indimenticabile, maestoso e micidiale rapporto con un pianoforte al quale ha dedicato, nel senso pieno del termine, la vita.
E, nonostante quell'ultima, caustica, negazione finale, nonostante quel volersi negare una speranza, emerge, come dato fondante, quello di un'apertura a qualcosa d'altro. Un'esigenza profonda del cuore dell'uomo che un semplice piano, solo, non può soddisfare.