Boyhood non è un coming of age come tutti gli altri. O meglio, dal punto di vista prettamente narrativo Boyhood può addirittura considerarsi come il coming of age per antonomasia. Analizzato nella sua complessità, vediamo letteralmente il protagonista crescere, affrontare gli ostacoli di un'infanzia pronta a tramutarsi in adolescenza, muovendosi tra screzi familiari, e prime esperienze sentimentali. Eppure, c'è qualcosa che vive silente tra gli inframezzi dei suoi raccordi che lo rende unico, singolare, speciale. Figlio di un modus operandi come quello di Richard Linklater, dove il tempo si fa elemento da allungare, ridurre, attorcigliare, come un filo elastico, Boyhood esce nel 2014 dopo dodici anni di attesa; dodici anni durante i quali cast e crew si riunivano due settimane all'anno per portare a casa parti di un corpo cinematografico pronto a prendere vita.
Un tempo molto lungo, in cui a porsi davanti la cinepresa erano gli stessi attori, mentre dietro, le medesime maestranze: senza effetti speciali, di de-aging o trucco prostatico, Boyhood mostra lo scorrere del tempo tra bambini che diventano grandi, e grandi che rimangono bambini. Vive qui il medesimo principio che sta alla base della trilogia del Before: 12 anni raccolti nell'arco di quasi 180 minuti, suddivisi in segmenti intervallati dal passaggio di un solo anno (e non nove come i tre episodi con protagonisti Ethan Hawke e Julie Delpy) per raccontare illusoriamente in presa (in)diretta la crescita di Mason (Ellar Coltrane) bambino di otto anni con una sorella che diventa grande, e genitori divorziati (Patricia Arquette, vincitrice del premio Oscar proprio per Boyhood, ed Ethan Hawke) che diventano vecchi. Quello che batte nel cuore del film di Linklater è dunque lo sprazzo di vita forse più delicato dell'esistenza umana: sono attimi dove il carattere si forma, la personalità si forgia, e quel pulsante della pubertà già visto in Inside Out 2 viene azionato, facendo sì che tutto cambi, e molto si perda per poi ritrovarsi.
Il miracolo di Boyhood raccontato da Patricia Arquette
Boyhood: il cinema è la vita con le parti noiose (non) tolte
Per una vita che scorre veloce, i piani-sequenza di Before Sunset - Prima del tramonto lasciano pertanto spazio a un ritmo più concitato, dinamico, non adrenalinico come quello di School of Rock, o del recente Hit Man (qui la nostra recensione), ma nemmeno introspettivo e riflessivo come quello di The last flag flying. Con Boyhood Linklater pare compiere quello che Alfred Hitchcock teorizzava solo a parole, ossia considerare "il cinema come la vita, ma con le parti noiose tolte". Solo che il regista texano quelle parti non le elimina, anzi. Anche l'apatia nascosta in quell'ordinarietà che pare non offrire nulla, è un elemento imprescindibile da inserire nel costrutto visivo di Boyhood, perché parte integrante di una storia realistica come quella di un bambino di otto anni pronto a diventare adulto.
Togliere o falsificare parti altrimenti sacrificabili perché poco interessanti all'economia del racconto, avrebbe voluto significare tradire il senso stesso del progetto, ossia portare la vita nello spazio di una cornice cinematografica. Tra cesure ed ellissi temporali, se Linklater fa a meno di qualcosa, queste sono le scene madri: tutto si riduce a istantanee cinematografiche colte nel fluire di un'esistenza. Boyhood, quindi, si fa raccolta di memorie. Restituendo il processo mnemonico dell'essere umano, il film si arricchisce di sempre più ricordi con il passare dei dodici anni. Se inizialmente il racconto (affidato a riprese basse, ad altezza bambino) si fa corale e il punto di vista un po' sbiadito (tipico della memoria di un bimbo di otto anni) si focalizza sui genitori e sui figli, con il passare del tempo tutto si fa più nitido e chiaro, e i ricordi si ampliano, fino a concentrarsi sullo stesso Mason e la sorella Samantha.
Linklater, testimone dello scorrere del tempo
In Boyhood si rende cinematografica la percezione del tempo, grazie anche a uno stile minimalista, poco pretenzioso, ma facilmente leggibile e comprensibile. Un'adesione perfetta tra cinema e realtà che prende vita nel grembo immaginifico di Linklater grazie al DNA di una biografia personale, concepita da ricordi e sensazioni che lo stesso regista ha vissuto sulla sua pelle. Figlio di genitori divorziati, cresciuto da una madre capace di fargli assorbire il trauma della separazione senza troppe conseguenze, in Linklater si nascondeva silente quella fastidiosa e dolorosa sensazione di essere diverso, rotto, fallace.
Non si sentiva un bambino come i suoi coetanei, il regista, perché prodotto di una coppia che non esisteva più; perché risultato di un amore finito; perché conseguenza di un atto, come quello di divorzio, che agli occhi di una cittadina del Texas degli anni Settanta, era qualcosa di inammissibile, inconcepibile, a tratti inaccettabile. Ed è superando tale costrizione che Linklater ha potuto redigere il proprio saggio sulla crescita; un'opera suddivisa in tanti paragrafi quante sono le tappe di una maturazione personale segnata non più da eventi programmati, quanto da quelli che capitano senza preavviso, totalmente a caso. Sono infatti momenti comuni, e mai tragedie o colpi di scena, a segnare i punti di svolta, e i grandi insegnamenti appresi dal suo protagonista. Sono incontri casuali, parole istintive, gesti non programmati, a trascinare la storia e, con essa, lo spettatore.
L'aderenza alla realtà, tra incubi e sogni lunghi 12 anni
Quella che abitava il cassetto della sua infanzia era una sensazione che Linklater, nelle vesti di regista, può adesso esorcizzare, sradicare come radici del male, attraverso la potenza della sua fantasia e della luce accesa di una cinepresa in azione. Il risultato è un film come Boyhood, un'opera viva, che respira, che cresce, cambia; un film umano. Una caratteristica, questa, non solo sottolineata dalle tematiche affrontate, ma anche da quella ripresa che segue a giusta distanza, i propri protagonisti. Gli umori che mutano, le emozioni trattenute, il dolore che affligge, e la felicità che scoppia nello spazio di occhi lucidi, e labbra aperte in sinceri sorrisi. È una riproposizione della realtà, filtrata dalla macchina di sogni depositati in possibili incubi, Boyhood, che si mescola tra le acque di una fattura documentaristica capace di ridurre le distanze tra possibile e reale, per colorare tutto di verità.
Lo stesso linguaggio affidato ai propri interpreti si sveste di concetti complicati, termini altisonanti, o frasi filosofeggianti, per ancorarsi a un linguaggio comune, terreno, semplice... insomma un linguaggio quotidiano. Capita poi che il linguaggio sotto forma di botta e risposta, neanche sia presente, lasciando spazio a un vuoto assordante, un silenzio capace di comunicare sensazioni e pensieri molto più vividi e profondi di quanto farebbero fiumi di parole del tutto inutili. Sono silenzi imbarazzanti tra padre e figlio, di chi vorrebbe dire tante cose, ma non sa come. Oppure i silenzi di una donna ormai stanca di combattere, riducendosi a vittima. Tutto, nello sguardo cinematografico di Linklater, tra emozioni e paure, insicurezze e sprazzi di evanescente gioia. Corrente di un'ordinarietà facilmente riconoscibile e in cui è facile immergersi.
Richard Linklater e la magia del tempo
Nel saggio umano che è Boyhood c'è molto più che la volontà di immortalare lo scorrere del tempo. A mutare e crescere insieme a Mason è anche l'America stessa. Anno dopo anno, mentre il corpo del ragazzo cambia, e le emozioni si fanno più profonde e complesse, a cambiare sotto lo sguardo dello spettatore è anche una società così diversa, e così ingiustamente uguale, a quella che circondava i suoi protagonisti a inizio film.
Al centro delle sperimentazioni temporali e filosofiche di un Linklater che pone sotto la lente del suo microscopio l'essenza più fragile dell'essere umano, cè anche quel bacino socio-culturale che li ingloba, modella e manovra a proprio piacimento. Un cambiamento riscontrabile soprattutto nelle figure dei suoi genitori, rappresentanti massimi di una diversa concezione sociale e culturale nei confronti dei ruoli di uomo e donna nella nostra contemporaneità, tra discriminazioni di genere e rivendicazioni personali; sono uomini dall'aura negativa, e donne forti, capaci di tenere testa alla propria controparte maschile.
Boyhood non è il solito coming of age: Boyhood è un affresco dipinto con lo scorrere del tempo su cosa voglia dire essere prima bambino, poi giovane uomo, in territorio americano. È una tela un po' sfumata, a volte un po' rovinata che proprio in questa sua imperfezione rivela un racconto fatto della stessa sostanza di cui è fatta la realtà.