Recensione Matrimoni e pregiudizi (2004)

E' possibile tradurre efficacemente il materiale tipico della commedia musicale bollywoodiana in un musical all'americana? Gurinder Chadha, a due anni da Sognando Beckham, attinge a piene mani dal suo grande amore, il cinema di Bombay per l'appunto, portando in porto un'operazione per niente banale.

Bollywood sbarca a Hollywood

L'intrigante Mrs Bakshi si adopera affannosamente per trovare un marito a ciascuna delle sue quattro figlie. I suoi piani sembrano sulla via di avverarsi quando due giovani indiani che hanno fatto fortuna all'estero ritornano in patria, l'uno per affari, l'altro per trovare moglie. A complicare tremendamente le cose un rampante e fascinoso miliardario americano e un viaggiatore zaino in spalla di dubbia moralità che daranno vita a una sarabanda di fughe, ritrovamenti, liti, riappacificazioni, che condurrà i protagonisti in giro per l'India, a Londra e a Los Angeles, fino a che tutti (o quasi) non avranno trovato il loro posto e la pace familiare non sarà stata ristabilita.

E' possibile tradurre efficacemente il materiale tipico della commedia musicale bollywoodiana in un musical all'americana? Gurinder Chadha, a due anni da Sognando Beckham, attinge a piene mani dal suo grande amore, il cinema di Bombay per l'appunto, portando in porto un'operazione per niente banale.

Gli elementi tipici del genere ci sono tutti: la famiglia borghese indiana con la sua aspirazione a migliorare il proprio status sociale, la giovane figlia che non ha altra via di realizzazione se non quella di un matrimonio conveniente (e combinato), lo scontro generazionale, l'amore verso un uomo che non è il suo promesso sposo, con tutte le difficoltà che ne derivano, il lieto fine che accontenta tutti.

La regista inglese ci mette molto del suo, aggiungendo una certa dose di sensibilità sociale,una forte componente (auto)riflessiva sui problemi dell'India contemporanea (a tratti didascalica ma interessante e narrativamente ben inserita), una figura paterna decisiva e presente come raramente accade nella tradizione cinematografica a cui si fa riferimento. E poi l'occidente, con la sua anima ambigua e controversa di portatore di benessere e insieme di inganno, incarnata nelle figure dei due giovani che si contendono la mano della bella Lalita.

La pudicizia e la levità tipiche del cinema di Bollywood vengono mantenute con una fedeltà alle regole (le regole della censura e la regola non scritta "Don't kiss, we're in India") che a tratti sa molto di parodia. Un umorismo godibile e garbato (anch'esso ingrediente tradizionale che mitiga le avversità a cui i due innamorati vanno incontro) contribuisce ad alleggerire ulteriormente il tutto.

Quello che ne risulta è una commedia trascinante e ben ritmata, che non risparmia i colpi di scena e riesce magistralmente a tenere insieme i vari subplot che man mano si dipanano.

I numeri musicali, inseriti nei momenti di maggior tensione emotiva o a sostituire sconvenienti manifestazioni di affetto, sono strepitosi. La celebre coreografa Saroj Khan - Lagaan: Once Upon a Time in India, Devdas, Don't Say a Word, e altri centotrenta film in poco meno di quarant'anni - sfrutta al meglio le splendide musiche (gradevolmente arrangiate per il nostro orecchio) di Anu Malik (i suoi numeri parlano di centottanta film in meno di vent'anni) e Craig Pruess (Goldeneye, Sognando Beckham) e il budget generoso a disposizione, orchestrando goiosi movimenti di masse festanti e languidi romantici duetti che delizieranno gli amanti del genere. I testi delle parti cantate (lasciate fortunatamente in lingua originale e sottotitolate) sono parte integrante della sceneggiatura e non semplici commenti.

Il cast fornisce una prova eccellente ed è ben diretto, sia per quanto riguarda i protagonisti (tra cui la bellissima Aishwarya Rai, Miss Mondo 1994, più volte sulle copertine di Vogue nonché testimonial di L'Oreal), che per i molti e divertenti personaggi di contorno tra cui spicca l'ottimo Nitin Ganatra nella parte di un goffo e ricco pretendente.

La critica "colta" indiana storce il naso ogni qual volta una megaproduzione destinata al mercato estero (per la maggior parte agli indiani emigrati) si inserisca nel ricco filone bollywoodiano. Si accusa il grande cinema di voler riproporre un'immagine acriticamente stereotipata e folkloristica a uso e consumo di un immaginario nostalgico e dimentico dei reali drammi del paese. In questo senso, non è forse questa la via per sdoganare il cinema indiano dal suo provincialismo (un "provincialismo" che puo' contare su un pubblico costituito da più di un miliardo di persone) ma sicuramente un buon passo avanti per destare l'attenzione del pubblico occidentale verso una delle cinematografie più prolifiche al mondo.