Il corpo come protagonista assoluto. Un corpo erculeo, femminile che, però, sembra maschile. Un corpo, come spiega la stessa regista, capace "addirittura di parlare". Un corpo che non passa inosservato (in tutti i sensi), come non passa inosservato Body Odyssey, opera prima di Grazia Tricario, e prodotta a metà tra Italia e Svizzera. Più che un film, volutamente esagerato (o almeno noi abbiamo letto una consapevolezza tale da parte dell'autrice), una sorta di digressione della body art formato cinema, arrivando fino a sfiorare i concetti tipici del body horror. Stratificato e metaforico, quello della Tricarico non è, superficialmente, un film semplice, né tantomeno di facile accessibilità: richiede un certo sforzo, una certa predisposizione e, a tratti, anche una certa accondiscendenza.
Perché vedendolo, per analizzarlo e in qualche modo giudicarlo, non possiamo prescindere dalla voglia registica dell'autrice di rimettere in scena alcuni tratti già affrontati nel 2014, con il cortometraggio Mona Blond, dove la protagonista era la stessa Jacqueline Fuchs, bodybuilder svizzera qui protagonista in una vicenda di pura irrealtà, ma legata comunque alla cosa più reale possibile: la carne. Muscoli e sangue, le vene che stanno per esplodere, gli occhi gialli e il fiato corto. Una discesa infernale che segue l'ombra mostruosa di una donna complicatissima, e rivista dalla Tricarico in un'opera certo ambiziosa ma anche non esente da un'ingombrante sovrastruttura capace di piegare i buoni spunti.
Body Odyssey, la trama: il corpo come storia
La protagonista di Body Odyssey è proprio Mona Blond (interpretata dalla Fuchs), bodybuilder che, sotto le direttive dell'avido allenatore Kurt (Julian Sands, sempre mefistofelico e strepitoso), sta spingendo oltre i limiti i muscoli del proprio corpo, in preparazione ad una gara fondamentale. Rimpinzata di steroidi e proteine, per Mona inizia una sorta di viaggio dell'assurdo: ricerca la sua femminilità dietro un aspetto ormai mascolino, e prova in qualche modo a cibarsi di emozioni fugaci dopo aver incontrato per caso un ragazzo. Il film Grazia Tricarico, infatti, racconta essenzialmente il lasso di tempo che separa Mona dagli allenamenti alle gare. Una macchina votata alla perfezione, ma che sembra invece molto più vicina all'orrore, al disgusto, alla deformazione.
Approccio autoriale, sovrastruttura ingombrante
A proposito di deformazione, è curioso l'esperimento artistico della Tricarico, mosso da un chiaro approccio autoriale: ogni stortura e ogni bruttura, che si gonfiano e si sgonfiano come muscoli che pompano, sono costantemente sottolineati dallo sguardo onirico che aleggia sull'intera messa in scena, come se fosse una specie di rivistazione della poetica di Cronenberg. Body Odyssey, tra l'altro, più che concentrarsi sulla figura di una bodybuilder, si sofferma sull'indagare i tormenti che derivano dall'incomunicabilità messa in circolo tra il i muscoli ed il pensiero della protagonista (da qui un concetto che rifiuta i canoni tipici degli sport movies). Un tormento che segue sacrifici estenuanti e spesso auto-flagellanti, puntando ad un mutazione continua che si rimpalla in ogni dettaglio soppesato dalla regista.
Il punto, però, è proprio questo: per assurdo, il film sembra soffrire eccessivamente i calcoli al millimetro, finendo per diventare più estetizzante (appunto la body art) che tangibile nella forma del racconto, in questo caso sacrificata da una costante esasperazione visiva. Parlavamo di sovrastrutture non a caso: si ha l'impressione che Body Odyssey sia in qualche modo soggetto ad una costante appariscenza, come se fosse in qualche modo vittima di una costante dominazione da parte della muscolatura, appunto, formale. Resta comunque l'ambizione di uno sforzo filmico che indaga il valore del corpo, tanto potente quanto fragile e sfuggente, parafrasandosi nella musica pulsante della colonna sonora di Lorenzo Tomio.
Conclusioni
Una messa in scena potente ma forse troppo caricata e dalla sovrastruttura ingombrante quella di Body Odyssey, opera prima di Grazia Tricarico. Un'opera va detto di sicuro interesse e di sicura curiosità, che indaga il corpo come macchina umorale, stretta in una bellezza che diventa mutazione orrorifica. Buona la prova della culturista svizzera Jacqueline Fuchs.
Perché ci piace
- La prova di Jacqueline Fuchs.
- La colonna sonora.
- Una buona regia...
Cosa non va
- ... Forse troppo caricata?
- La sovrastruttura, che tende ad estetizzare eccessivamente.