Per iniziare al meglio la nostra spiegazione del finale di Blade Runner 2049 dobbiamo partire dall'originale, quel film cult del 1982 diretto da Ridley Scott e dal suo finale originale, non quello positivo visto all'epoca nelle sale, ma quello più cupo presente nella Final Cut del film. Riassumendo brevemente la storia produttiva del film con protagonista Harrison Ford, la versione vista al cinema si riconosce dalla presenza del voice over di Deckard che trasforma il film in un noir futuristico e dal finale - caratterizzato dalla presenza di sequenze di esterni scartate da Kubrick per Shining -, in cui il protagonista inizia una nuova vita con la replicante Rachel, sotto un sole splendente che si contrappone alla pioggia incessante che aveva caratterizzato tutto il film. Nel 1992 prima e nel 2007 poi, Ridley Scott ha però ripristinato la versione originale del film arrivando al Final Cut definitivo. In questa nuova versione il film si fa più immersivo e poetico, eliminando il flusso di pensieri di Deckard e cambiando totalmente il finale. Nel corso del film lo stesso Deckard dubiterà della sua natura umana (forse anche lui è un replicante inconsapevole) e il film arriverà ai titoli di codaì con la fuga in ascensore di Deckard e Rachel, lasciando tutto indefinito. Un finale più cupo e misterioso, più coerente con l'universo narrativo del film. Sebbene il sequel di Denis Villeneuve del 2017 riesca nella miracolosa impresa di funzionare per entrambe le versioni del film, in questo approfondimento terremo in considerazione - come è buona norma - solo quella che corrisponde alla completa visione del suo autore, ovvero la Final Cut.
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Un fiore nell'arida terra
La prima inquadratura del film è un occhio, un invito a guardare attentamente, sottolineando abcge l'importanza dello sguardo all'interno del film. È con un codice sulla pupilla che K (Ryan Gosling), il Blade Runner protagonista del film, riconosce i Replicanti da "ritirare"; è con la sua vista che trova un fiore vicino a un albero morto; è guardando negli archivi che scopre il codice DNA che mette in dubbio la sua natura. Quasi a voler capovolgere l'originale del 1982, in Blade Runner 2049 non abbiamo dubbi: K è un replicante, perfetto nel suo lavoro, una macchina anafettiva che trova piacere solo nella compagnia di Joi (Ana de Armas), un programma olografico artificiale. Eppure ora ha messo in dubbio la sua natura: ha trovato una cassa contenente lo scheletro di Rachel, morta di parto dopo aver dato alla luce un bambino. Un vero e proprio miracolo (i Replicanti non potrebbero avere figli) che lo spinge a indagare attraverso i luoghi della sua memoria: forse quel bambino è lui.
Nato, non creato
L'indagine di K lo porta a fare la conoscenza di Stelline, colei che immette dei ricordi nella mente dei Replicanti in modo da costruire loro un background. Stelline ha una malattia che la costringe a vivere lontano da tutti, chiusa in una cupola di vetro dentro la sua stanza. Lavora per la Wallace Corporation, l'industria che ha preso il posto della fallita Tyrell, dove il fondatore Niander (Jared Leto) cerca di costruire un androide perfetto capace di riprodursi, anche lui alla ricerca di questo figlio miracoloso di Rachel e Deckard. Stelline conferma a K che il suo ricordo più vivido, legato all'infanzia, è un vero ricordo. In K arriva finalmente la certezza: non è un numero seriale, non è una macchina senza sentimenti, ma è un uomo, vero, speciale, con un nome, con un'anima, unico. Abbandonato il lavoro di cacciatore di replicanti, K (con il nome di Joe) si mette alla ricerca di Deckard, nascosto tra le rovine di una Las Vegas radioattiva. L'incontro dura poco: la tirapiedi di Wallace, raggiungendoli, rapisce Deckard e lascia in fin di vita K. Soccorso da un gruppo di Replicanti rivoluzionari, K riceve una doccia gelida quando viene a conoscenza che Stelline è la figlia biologica di Rachel e Deckard, e che ha inserito casualmente in K un vero ricordo appartenente alla sua infanzia.
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Elogio dello sguardo
Al cospetto di Wallace, intenzionato a torturarlo per avere informazioni sulla gravidanza di Rachel, Deckard ha modo di confrontarsi con un fantasma del suo passato. Grazie al recupero delle ossa, Wallace ha creato una nuova Rachel, perfettamente identica all'originale (rivedere una giovane Sean Young è un miracolo degli effetti digitali premiati con l'Oscar) tranne per un dettaglio, un errore trascurabile che Deckard però non trascura: gli occhi non sono verdi. Ancora una volta lo sguardo è centrale per distinguere la realtà dall'artificiosità, il corpo di sangue e carne dalla macchina fittizia, il naturale dal digitale. Il film di Villeneuve sembra voler sottolineare come l'occhio abbia un ruolo predominante nella nostra esistenza, oltre che nell'universo fittizio del film. Bombardandoci con gli spot colorati per le strade della città, con intelligenze artificiali che trasformano una zuppa terribile in hamburger e patatine, ricordi artificiali iperdettagliati che sembrano veri, il 2049 condivide molto del mondo contemporaneo dove le informazioni, le relazioni, i contatti, passano attraverso gli schermi, le immagini, la realtà virtuale.
La cosa più umana
Nella bellissima sequenza d'amore Joi e la prostituta Mariette si confondono, si sovrappongono, si compenetrano rendendo impossibile distinguere se l'oggetto d'amore di K è l'una o l'altra. Gli occhi, allora, devono filtrare per arrivare a ciò che è considerato umano e vero e, di conseguenza, raggiungerne i sentimenti. Se gli occhi sono lo specchio dell'anima, questa è presente anche in ciò che non è umano. Joi e Joe: due identità artificiali con i nomi che richiamano un obiettivo legato alla "gioia", lei diventando "tutto quello che puoi vedere e sentire", lui agendo finalmente fuori da ogni programmazione e spinto dall'emotività. K riuscirà a recuperare Deckard e a portarlo finalmente di fronte a sua figlia Stelline, una figlia che non era mai riuscito a vedere. L'incontro tra padre e figlia avviene nella stanza, diviso dal vetro, incapaci di toccarsi ma fotografati attraverso (ancora una volta) il loro sguardo. Si vedono, dunque esistono. Fuori dalla stanza, sotto una neve di bianca purezza, K trova la morte: è sereno perché sa di aver agito in base a un istinto emotivo guidato dall'amore e sa che, come gli era stato detto dal capo dei rivoluzionari poco prima, "morire per la giusta causa è la cosa più umana che possiamo fare".
E' tempo di morire
Nel finale del film, la scena della morte di K riprende il tema musicale che era presente nell'originale durante il celebre discorso di Roy Batty. Anche in quel caso la macchina era spinta da uno strano sentimento inedito di compassione e salvava la vita di Deckard. Più che nel finale vero e proprio riguardante Deckard e Rachel, un po' cupo e aperto, è giusto sottolineare le analogie con il sacrificio di K. Nella sua mitologia, in entrambi i film, Blade Runner sembra agire su due fronti: da un lato ci mostra un futuro, pieno di neon, cosmopolita, ipertecnologico, ma anche piovoso, spersonalizzato e marcio, come a metterci in guardia sul comportamento umano e sulla fame insaziabile che ci spinge a volere sempre di più dalla vita; dall'altra sembra voglia invitarci a essere migliori. Se le macchine, benché rivoltose, violente e senza anima, riescono a intuire concetti come la mortalità e a commuoversi, riescono ad agire mosse da inspiegabili sentimenti che non dovrebbero avere, riescono nelle loro imperfezioni a salvare vite umane, l'uomo - creatura naturale, un miracolo inspiegabile e irreplicabile - dovrebbe essere migliore di loro.