Ci sono autori cinematografici che lasciano passare diversi anni tra un lavoro e l'altro, che studiano, esplorano e approfondiscono prima di tornare sul set. Altri che non sentono questa necessità, che passano da un progetto all'altro con una disinvoltura fuori dal comune, spinti da un vero e proprio bisogno di raccontare storie, di portare la propria visione al grande pubblico ed affrontare continuamente nuove sfide, con vivacità mentale ed approccio ludico all'arte di fare film.
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Uno di questi è sicuramente Takashi Miike, che a meno di sessant'anni ha già raggiunto un traguardo ragguardevole, portando la propria ampia, variegata e, diciamocelo, schizofrenica filmografia ad un totale di cento film. Una carrellata di opere che spazia tra i generi, passando dal musical al jidaigeki, dall'adattamento di popolari anime o manga a pellicole più enigmatiche e astratte, il tutto senza mai perdere quella cifra stilistica che possa renderle, inequivocabilmente, film di Miike. È così anche per l'opera numero 100, l'adattamento del manga di Hiroaki Samura Blade of the Immortal (pubblicato in Italia con il titolo L'immortale), presentato fuori concorso al Festival di Cannes del 2017.
Who Wants to Live Forever
Anche il nuovo lavoro è un jidaigeki, ovvero quello che noi occidentali chiameremmo un period drama, ambientato durante il periodo storico dello shogunato giapponese. Ne è protagonista Manji, un samurai che non può morire grazie a dei vermi sacri inoculatigli da una misteriosa figura, Yaobikuni. È un momento che vediamo nel suggestivo incipit del film, girato in un elegante bianco e nero e ambientato cinquant'anni prima degli eventi principali di Blade of the Immortal; un incipit durante il quale non scopriamo solo come Manji diventa immortale, ma anche della ferita che si porta dentro, causata dal selvaggio omicidio della sorellina Machi per mano di un gruppo di cacciatori di taglie.
Una ferita che echeggia anche nel corpo principale della storia e giustifica l'affezione che il samurai immortale proverà per un'altra giovanissima donna, Rin, figlia del maestro Asano e in cerca di vendetta per l'assassinio del padre per mano degli uomini di Kagehisa Anotsu. Uno scopo deciso e pericoloso, per il quale la ragazzina, su suggerimento di Yaobikuni, richiede la protezione di una guardia del corpo particolare, il nostro eroe Manji, seminando la strada che la separa dall'avversario di un mare di cadaveri.
Il fascino del sangue
Non ci risparmia sangue Miike in Blade of the Immortal, a cominciare dal primo, violento, potente schizzo scuro sulla schermata dei titoli, a cui fa seguito un primo scontro elaborato e cruento tra il protagonista ed i suoi numerosissimi avversari. L'autore giapponese mette subito in chiaro quale sarà il tono della storia che stiamo per seguire e lo persegue, battaglia dopo battaglia, fino ad un finale complesso e splendidamente coreografato, indugiando però su qualche lungaggine di troppo, forse vincolata dalla struttura del manga che ne rappresenta il punto di partenza: il film avrebbe giovato, infatti, di qualche intervento nella parte centrale, una lieve sfoltita delle sue due ore e venti di durata complessiva, per tenere meglio il ritmo e rendere meno schematica l'alternanza di prolissi dialoghi e furiosi combattimenti.
L'estetica della violenza
Ma è in questi ultimi che Miike dà il meglio, facendo trasparire un vero e proprio gusto per la violenza, raccontata con un atteggiamento gioioso e ludico, creativo e vivace, che si diverte a mozzare arti e teste, a far scorrere copiosamente il sangue mentre la camera si muove agile attorno ai guerrieri che si scontrano, per poi allargarsi, quando la lotta finisce, a mostrarne l'esito finale ed un mare di corpi mutilati. In questa cruenta estetica c'è tutta la sintesi del cinema di Miike, di certo apprezzabile da quella solida nicchia di estimatori dell'autore giapponese, ma forse incapace di raggiungere un pubblico più ampio (e lo dimostra il riscontro che Blade of the Immortal ha ricevuto alla sua recente uscita in patria).
Blade of the Immortal è quindi un nuovo tassello della copiosa filmografia di Takashi Miike che non deluderà i fan del maestro giapponese, ma difficilmente gli permetterà di raggiungere nuove fette di pubblico. Ma non crediamo che al regista di Audition interessi molto: starà già pensando ai prossimi lavori!
Movieplayer.it
3.5/5