Lo schermo nero è un oceano profondo, misterioso, che ti chiama e ti attira, per poi trascinarti giù, nelle sue profondità più oscure, senza possibilità di salvezza, o risalita. Lo schermo nero è un vortice senza uscite di emergenza; ipnotizzante, accattivante, ti ammalia come una sirena toccando le tue corde più intime, le fragilità più nascoste, i gusti più personali.
Nel 2011 lo schermo nero era ancora una superficie riflettente: tra le sue frequenze si emanavano frammenti di personalità intatte, solide, poco inclini a farsi brandelli di pixel e prede di algoritmi. Nel 2011 ci si avvicinava in punta di piedi a questi schermi neri; ci approcciavamo curiosi a essi come pura fonte di intrattenimento, a debita distanza, indenni a quel dominio massiccio e massivo fatto di foto che scattano, e mani che condividono. Era un momento di passaggio, una terra di confine il 2011: un terreno fertile in cui lasciare sedimentare la potenza dei social media, delle condivisioni di massa, degli algoritmi e delle piattaforme televisive. Un momento in cui tutto poteva accadere, e di cui solo le menti più brillanti e lungimiranti potevano presagire la forza dei tempi che stavano cambiando, anticipandone le conseguenze, sfruttandone le potenze latenti.
Nascita di uno schermo profetico
In principio ci furono Chiara Ferragni e i blog di moda; ma nel campo seriale nessuno come Charlie Brooker ha saputo farsi profeta dei tempi mutanti e mutevoli con il suo Black Mirror. Rilasciata inizialmente sulle frequenze pubbliche di Channel 4 - e per questo destinata a un range spettatoriale ben più ridotto rispetto a quello di Netflix - la serie pose immediatamente le basi del proprio successo su una mescolanza di distopico e fantascientifico, di probabile e profetico. Sensibile alle possibili conseguenze che l'avanzamento social a cui i mass-media iniziavano a essere sottoposti, con Black Mirror Brooker riuscì a tradurre i primi segnali di quelli che sarebbero stati gli incubi tipici dell'assuefazione tecnologica.
Non più parti di una società, ma sempre più utenti di una comunità social, nel 2011 l'autore ha saputo cogliere come i nostri sguardi iniziavano sempre più a immergersi in questi schermi neri, a lasciarsi catturare dalla potenza di questi pixel, divenendo succubi e parti integranti di un processo disumanizzante. Pedine in un baratto pronto a scambiare le relazioni interpersonali con caratteri di messaggistica e condivisioni fotografiche, nell'universo di Brooker iniziano a farsi largo le ossessioni per l'apprezzamento altrui sotto forma di like, la sovraesposizione personale, lo show-room personale di attimi intimi in cambio di bagliori di effimero successo, la delegazione di sentimenti ed emozioni a dispositivi tecnologici capaci di rifarci vivere attimi perduti, o persone scomparse. Insomma, nell'universo di Black Mirror si fanno spazio i primi sintomi di quella dipendenza di massa verso le superfici riflettenti di smartphone e televisioni, obiettivi e computer, pronti a dominare come un esercito nascosto nella trincea dello stand-by, le nostre esistenze.
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Il potere minaccioso del possibile
Ecco spiegato perché Black Mirror ha saputo fare breccia nella profondità più nascosta e inconscia della nostra mente: la serie di Charlie Brooker ha reso visibile ciò che era in procinto di realizzarsi. Il suo successo, soprattutto se analizzato a posteriori, vige tutto qui: nell'essere stato lungimirante e capace di sfruttare quello scarto esistente tra la potenza di vedere realizzate le ossessioni e le fobie qui narrate, e la possibilità di evitarle. Le prime due stagioni (più qualche eccezione proveniente dalla terza) sono stati degli avvertimenti seriali, dei moniti circa il possibile risvolto umano e culturale a cui la nostra società stava andando incontro. Supportato da un umorismo cattivo e senza scrupoli - tipico del più sarcastico black humor di stampo inglese - Black Mirror si è fatta finestra su una possibile realtà: un lamento di Cassandra inizialmente inascoltato perché relegato al solo ruolo di puro intrattenimento televisivo.
Eppure basta prendere in analisi "Caduta Libera" (primo episodio della terza stagione, diretto da Joe Wright) per capire come Brooker abbia colto una dipendenza cronica circa l'uso dei dispositivi social come fonte di appagamento di un narcisismo latente, e di una richiesta di approvazione costante da parte degli altri, sotto forma di like, o giudizi negativi.
Da schermo anticipatore, a quadro del presente
Con le prime due stagioni Charlie Brooker si è fatto dunque anticipatore sui tempi e profeta di una dipendenza globale verso lo schermo nero. Tutto è stato detto, tutto è stato anticipato. Che fare? Conseguentemente anche all'acquisizione del format da parte di Netflix, ora tutto doveva essere rimesso in gioco, riformattato e adattato a tempi mutati, in cui la realtà ha superato la stessa finzione. Quella dipendenza dallo schermo, quell'ossessione per la condivisione e la realizzazione di contenuti sempre più folli, sempre più estremi in cambio di una manciata di qualche like e visualizzazione in più, ha sconfinato dalle cornici dello schermo per attecchirsi al suolo della realtà. Lo dimostrano i casi di cronaca nera, di youtuber disposti a tutto - anche uccidere - pur di lasciare il segno, o di utenti che vedono nella rete lo strumento perfetto di vendette personali.
Svestitosi del ruolo di anticipatore profetico di eventi possibili e futuri, Black Mirror si è sempre più limitato al mero compito di denuncia televisiva dei comportamenti tipici di una società completamente dipendente e ossessionata dalla tecnologia. Ne consegue un distacco sempre più netto che ha allontanato l'opera dagli ambiti di un futuro distopico per addentrarsi nel sottosuolo di un passato e presente a noi quanto più vicino. Non più presentazione di un mondo che sarà, o che potrebbe essere, adesso si fa largo in Black Mirror un recupero di eventi e tecnologie passate (si pensi alle VHS del secondo episodio della sesta stagione, "Loch Henry") per tracciare i limiti di una società ormai alienata dagli schermi neri.
Quella curiosità iniziale che si è fatta dipendenza verso una tecnologia che da fonte di supporto e aiuto quotidiano, esula dal proprio compito iniziale per trasformarsi in generatori di mostri e ossessioni (si pensi all'episodio della quarta stagione, diretto da Jodie Foster, "Arkangel") non sussiste più: adesso c'è spazio solo per la constatazione di quello che l'incapacità e la gestione errata della tecnologia ha portato nella nostra società.
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Il perché di una caduta libera
Ed è proprio in seno a tale distaccamento temporale, da questo passaggio da quel possibile che permetteva di esagerare con la fantasia, innestando un senso di paura e timore negli spettatori, a una realtà vicina alla nostra, che deve ritrovarsi il motivo per cui per molti "Black Mirror non è più Black Mirror". Uno snaturamento, questo, sicuramente iniziato e promosso dal suo trasferimento su Netflix. Destinato a un pubblico molto più ampio ed eterogeneo rispetto a quello iniziale targato Channel 4, Black Mirror ha dovuto compiere un processo di adattamento linguistico accessibile a un pubblico mondiale, edulcorando quell'umorismo nero tipicamente British e chiamando a sé star dalla caratura prestigiosa e unitamente riconoscibili (Salma Hayek, Andrew Scott, Aaron Paul, Miley Cyrus).
Gli stessi contenuti iniziano a orientarsi verso una certa inclusività grazie alla quale includere il tema portante dello show anche a temi di natura sociale, come quelli LGBT (San Junipero). Ciononostante, per quanto la volontà di Brooker di affacciarsi a una contemporaneità di argomenti e linguaggi possa giustificare tale cambiamento di rotta, è innegabile che nell'arco delle ultime stagioni Black Mirror abbia perso di mordacia.
La serie è diventata un'ombra di se stessa; conclusosi il suo arco evolutivo di profeta seriale sui tempi che cambiano, viene da chiedersi se forse non sia meglio ricalibrare il tutto e dare vita a uno show eterozigote, nato dalla stessa mente di Brooker, e con lo stesso codice genetico di Black Mirror, ma con una denominazione differente e per questo libero di poter sperimentare sotto nuovi fronti, evitando il paragone con la serie originale.
Basta il titolo, Black Mirror ed ecco che si scatena in noi una continua associazione mentale che ci porta a una data struttura narrativa, e alla proposta di temi ben specifici. Vedere costantemente tradite tali aspettative (salvo rari casi, come il recente "Joan is Awful") spinge lo spettatore ad allontanarsi da tale prodotto, perché incapace di ritrovare in esso il cuore pulsante che lo aveva colpito, ammaliato, conquistato. La sirena dal canto incantatore si è tramutato in un gabbiano afono; manca la magia, manca l'incantesimo. Black Mirror non è più finestra su un futuro, ma quadro di un presente. E forse proprio perché il nostro presente è già abbastanza atroce e minaccioso più di ogni creatura nata dall'immaginazione, un prodotto come Black Mirror pare ormai desueto, obsoleto, troppo leggero nello sferrarci uno schiaffo morale capace di svegliarci da questa alienazione tecnologica.