C'è un fil rouge nella televisione americana che ha tracciato il crepuscolo degli idoli della golden age legati alla serialità. Una destrutturazione del maschio statunitense di fine anni '90, ormai pieno di insicurezze, fantasmi e fragilità e, contemporaneamente, viene sovvertito il linguaggio canonico del piccolo schermo sia a livello formale che contenutistico. Un'iniezione cinematografica all'interno della visione televisiva, in grado di ribaltare ogni tipo di genere per affrontare la nevrosi della nuova società americana, ormai cambiata per rispecchiarsi nei profili delineati da personaggi e storie passate. La trovata di queste serie era quella di ruotare intorno ad un personaggio (un antieroe) centro di gravità permanente e corpus di analisi di un mondo che grazie a lui si trasforma davanti agli occhi dello spettatore.
Il titolo seminale di questa nuova era del racconto televisivo è I Soprano di David Chase, che ha dato vita ad un filone derivativo con diversi titoli, sia nell'ambito della revisione postmoderna del nuovo uomo americano, sia nell'analisi del realtà malvagia in cui non è più possibile soffermarsi ad una semplice visione dualistica. L'erede del doppio filone? Vince Gilligan. Le due correnti appena descritte confluiscono infatti in Breaking Bad (spesso lo showrunner ha detto che "non ci sarebbe stato Walter senza Tony"), ringalluzzendo la bontà della prospettiva di Chase e potenziandola in senso puramente pop, per venire incredibilmente rinnovate con Better Call Saul. Un rinnovamento tale da escluderlo, per assurdo, da questo insieme produttivo? Certo, e questo spiegherebbe lo strano fenomeno che vi stiamo per esporre.
Il suddetto grande filone televisivo è stato osannato da una generazione di critici e spettatori formatisi attraverso i titoli che gli appartengono. L'attecchimento di uno show nell'immaginario pop sono i requisiti che di solito lo portano ai premi e non a caso queste serie sono tra le più celebrate a livello di riconoscimenti. Ce l'ha detto la creatura di David Chase, lo show più premiato di sempre con oltre 80 riconoscimenti su 211 nomination, ce l'ha detto Breaking Bad con oltre 60 riconoscimenti e ce l'ha detto Succession, mattatore assoluto di questi anni. La chiusura della stagione dei premi del 2023 in realtà non ha solo sentenziato come il titolo di Jesse Armstrong sia l'erede indicato di un certo tipo di televisione, ma ha sentenziato quanto Better Call Sual sia la serie più bella, ma meno premiata di sempre con l'assurdo record di oltre 50 candidature tra Emmy e Golden Globe e 0 vittorie. La domanda sorge spontanea: come è possibile?
Better Call Saul, una nuova ambizione seriale
Better Call Saul di Vince Gilligan e Peter Gould debutta nel febbraio del 2015, a neanche due anni pieni dal termine di Breaking Bad, un fenomeno divenuto subito cult e che ha lanciato la serialità statunitense nel secondo decennio del XXI secolo nel segno della continuità e della rielaborazione. La tv ormai non vuole più essere la cugina del cinema, quindi si permette di creare una rete di sequel, spinoff e prequel adoperando le medesime logiche di scrittura. Dopo tutto la stessa serie incentrata sulle avventure di Jimmy McGill alias Bob Odenkirk è stata quasi invocata a furor di un popolo, bramoso di continuare ad esplorare il mondo del creatore di Walter e Jesse, il quale però ha sempre scansato la fretta e le decisioni di pancia (sarebbe da chiedergli allora quali sono stati i motivi che l'hanno portato a dar vita a El camino) puntando invece sulla precisione di concepimento e di messa in scena.
Il debutto di Better Call Saul segna la première col più alto indice d'ascolto di sempre per le TV via cavo, ma la serie non è esattamente quello che il grande pubblico si aspettava. È più lenta e compassata della precedente, il suo protagonista è sfidante anche per uno spettatore allenato, il suo universo è più scomodo e meno intuitivo e il punto di vista è collettivo. La prima preoccupazione dello show non è quella di assecondare una volontà che la vede come diretta conseguenza di un titolo più grande e amato, ma come una storia in cerca di un'emancipazione estetica e contenutistica. La nuova creatura di Gilligan non è un sequel, un prequel o uno spinoff, ma tutte queste cose insieme, pensate per dar vita ad uno show postmoderno del tutto nuovo.
Ciò è stato reso possibile perché un pubblico già c'era, non doveva essere catturato, attirato o smosso e c'erano anche i personaggi, anzi ce n'erano anche troppi (e con l'attesa della loro comparsa la serie ci ha anche spesso giocato). I due autori si sono appoggiati a questi elementi, approfittandone per approfondirli, e crearne altri, meravigliosi, come la Kim Wexler di Rhea Seehorn o il Lalo Salamanca di Tony Dalton. Il secondo passo è stato quello di responsabilizzare lo spettatore, proponendogli l'under dog per eccellenza (quasi una macchietta nel contesto dove era stato conosciuto). Un battitore libero di seconda linea da cui nessuno si aspetterebbe altro se non quello che già è stato mostrato, usato per disattendere ogni aspettativa e per creare, progressivamente, un mondo che non sarebbe stata appendice dell'altro, ma che avrebbe acquisito addirittura tutti gli strumenti per inglobarlo.
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Better Call Saul is better than you
L'operazione che Gilligan e Peter Gould fanno con Better Call Saul è forse così fine ed elegante che ancora dovrà essere capita e recepita. La serie non ha solo delle caratteristiche personali, ma ha tra i suoi obiettivi quello di creare uno spaccato tra sé e tutti gli altri titoli suoi contemporanei. Vuole mangiarsi i padri, vuole creare un nuovo corso e vuole farlo puntando sulla qualità del linguaggio, sull'attenzione ai dettagli e su di una commistione in cui cinema e televisione possano finalmente parlarsi guardandosi negli occhi. Vuole riprendere i linguaggi tradizionali, esasperarli, sconvolgerli ed elevarne la portata, segnando qualcosa che possa costituire **un nuovo passo in avanti nel fare storie in televisione.
Quello di Better Call Saul è un procedere personalissimo, a tratti quasi impercettibile, ma che non si perde mai in momenti ripetitivi o situazioni inutili. La regia, la scrittura, la fotografia e le prove attoriali sono calcolate al millimetro, al punto che ogni cosa assume un suo senso, sia autonomamente che in relazione al resto. Ogni concezione visiva, ogni inquadratura, ogni movimento di camera, ogni battuta e ogni silenzio, la posizione di ogni fonte di luce; tutto è pensato in funzione della creazione di un qualcosa di unico, che possa puntare all'eccellenza prima che a qualsiasi altra cosa. La forza della narrazione sta nella sua capacità di creare una tensione in grado di perdurare per una stagione intera e, allo stesso tempo, capace di costruire il mito in poche scene. Tutto è derivativo nella storia di Saul Goodman, ma tutto è peculiare.
C'è, insomma, un gioco interno in Better Call Saul, che è metatestuale e incredibilmente consapevole. Una serie che intende fare la sua rivoluzione destrutturando il fil rouge che abbiamo ampiamente illustrato in apertura di articolo, proponendo conseguentemente una sfida nuova allo spettatore medio e all'intero panorama delle televisione statunitense. Il titolo è una meravigliosa eccezione, una lezione per chi avrà il tempo e le risorse per creare qualcosa di così grande, ma anche un modo per istruire lo spettatore a pretendere di più, da se stesso e dai creativi. La testimonianza di tutto ciò sta in uno dei finali più belli della storia del piccolo schermo, e che comunque grida vendetta in fatto di premi. Forse, Better Call Saul non lo abbiamo capito fino in fondo, o forse non lo hanno capito coloro che scelgono chi premiare, che sia un Emmy o un Globe. Tuttavia, in 9 anni qualcosa era doveroso riconoscerle, finendo di essere lungimiranti. Alla fine, però, conta il valore assoluto di una serie: chi se ne frega di far parte di un filone esclusivo!