Sintesi elegante della donna all'avanguardia e anticonformista, Stefania Rocca è un'artista difficile da inquadrare, sfuggente a qualsiasi schema classico a portata di etichetta. Una curiosa esploratrice di mezzi e di generi che, tra cinema, televisione e teatro, ha fatto della varietà di ruoli la sua unica costante. Un'attrice intelligente e capace, presente alla sesta edizione del Bif&st di Bari come conduttrice della serata finale del Festival ma soprattutto nelle inediti vesti di regista socialmente impegnata. In occasione di un approfondito focus a lei dedicato, Rocca ha riattraversato vent'anni di un percorso attoriale molto simile ad un percorso ad ostacoli, dove gli oggetti da evitare erano personaggi rinchiusi dentro gli stereotipi.
La diga del Nirvana
La varietà che contraddistingue la carriera di Stefania Rocca nasce sin dalla sua formazione. Dopo il Centro Sperimentale di Cinematografia arriva l'esperienza americana nel prestigioso Actor's Studio, periodo nel quale lavora come barista per permettersi gli studi. Ritornata in Italia, inizia un corso tenuto da un pedagogista russo che le ha insegnato a mantenere viva la curiosità infantile della scoperta: "Recitare significa entrare in un personaggio diverso da te, camuffarsi, travestirsi, proprio come i bambini amano e sanno fare. Questo approccio vario mi ha permesso di non soffermarmi mai su un solo modello anche se in molti mi consigliavano di specializzarmi per essere facilmente riconoscibile dai registi. La voglia di cambiare continuamente è stata una mia precisa scelta". Un desiderio che diventa una necessità subito dopo un film molto particolare e connotato come Nirvana di Gabriele Salvatores. "Quella è stata una grandissima esperienza per un'attrice alle prime armi come me. Un regista di fama internazionale che si cimentava in un film ambizioso dalle tonalità forti e cyberpunk, ancora oggi attuale e profetico. Anche nel mio lavoro successivo (Viol@) mi sono cimentata con i temi della Rete e delle connessioni virtuali, tra l'altro a me molto cari, visto che sono una fanatica della tecnologia. Per questo, per il film successivo cercavo un ruolo nettamente opposto, un film al contrario. E per fortuna è arrivato Rosa e Cornelia, un film in costume molto più classico".
Pensare il personaggio
Tra la fine degli anni Novanta e gli inizi del Duemila, Rocca colleziona una serie di collaborazioni con registi stranieri come Anthony Minghella (Il talento di Mr. Ripley) e Kenneth Branagh (Pene d'amor perdute), esperienze che hanno cambiato il suo modo di entrare nella parte: "La prima difficoltà è quella di confrontarti con grandi attori che per forza di cose ti mettono un po' di soggezione. Il problema della lingua non è tanto espressivo, quanto mentale perché la cosa difficile è pensare in inglese, ovvero formulare la battuta in modo da non risultare artefatti e poco reattivi dopo il ciak".
Due i film ricordati con maggiore affetto: Casomai e La bestia nel cuore: "Nel film di D'Alatri ho ripreso ossigeno, perché avevo un grande desiderio di normalità e per fortuna mi è capitato un ruolo di donna moderna, calata nella quotidianità del rapporto di coppia. Invece con Comencini è stato un lavoro di grande introspezione. Interpretavo una donna cieca e omosessuale, così per diverso tempo ho fatto volontariato tra i non vedenti per capire il loro linguaggio del corpo, la loro gestione degli spazi". La varietà di vesti indossate da Rocca le ha permesso anche di formulare un'interessante teoria sul rapporto con il personaggio: "Ho notato che quando indosso i panni di una persona simile a me, lavoro sulle emozioni per amplificarle. In questo modo è come sostenere un piccolo e involontario esame di coscienza durante il quale ti giudichi come persona. Al contrario, quando ho interpretato personaggi completamente opposti dalla mia personalità, ho imparato a non giudicare mai la diversità altrui. Una lezione che mi è servita anche nella vita. Senza dubbio i ruoli più complessi sono quelli di personaggi realmente esistiti, non tanto per il rispetto della veridicità storica, ma perché è difficile accontentare le tante percezioni che gli spettatori hanno di quella determinata figura".
Tutti pazzi per la televisione
Anche fuori dal set, Stefania Rocca è un personaggio discreto e poco appariscente, ma nonostante questo suo basso profilo, la notorietà ha bussato alla sua porta: "Sono molto felice del mio pubblico, lo ritengo molto discreto, equilibrato e rispettoso nei miei confronti. Per chi, come me, ha avuto la fortuna di recitare sia al cinema che in televisione, è davvero curioso notare una differenza sostanziale tra i due tipi di pubblico. Lo spettatore cinematografico tende ad avere un po' di soggezione, a guardarti con un minimo di timore reverenziale, invece quello televisivo si approccia con molta più confidenza e familiarità, come se ti conoscesse da una vita. Sicuramente il grande successo di Tutti pazzi per amore mi ha fatto scoprire questo divario. Le persone per strada mi salutavano chiamandomi Laura".
La regia e l'impegno
Nel corso del Bif&st, nella sezione Extra, sono stati presentati due cortometraggi scritti e diretti da Stefania Rocca: Osa e L'abbraccio. Due corti fortemente improntati sul tema del disagio minorile: "Sono esperienze scaturite da una mia forte esigenza di condivisione. Tutto è nato casualmente mentre ero in treno, quando ho incontrato una ragazza di sedici anni che stava scappando da un matrimonio combinato. Ero incredula, non pensavo che certe dinamiche esistessero ancora. Così, per cercare di lasciare un segno concreto e denunciare violenze come quella, ho deciso di realizzare Osa. L'abbraccio, invece, è ambientato a L'Aquila e vede protagonisti dei bambini tra i sei e i dodici anni che sono ancora costretti a studiare in un piccolo container. Con loro ho anche tenuto dei corsi di lettura e teatro e il corto è la naturale conseguenza di questo mio bisogno di raccontare storie rimaste o cadute nel dimenticatoio".
Questa forte determinazione ha cambiato le sue priorità, così, se i desideri da attrice rispondono ai nomi di Paolo Sorrentino e a un altro film con Gabriele Salvatores, il futuro conserva un netto cambio di prospettive: "Adoro visualizzare e scrivere una storia, per cui mentirei se dicessi che la regia non è stata una splendida folgorazione. Dirigere un film è come partorire, è una sensazione incredibile". E con questo sguardo ormai dietro la macchina da presa, le difficoltà produttive passano in primo piano: "In Italia abbiamo dei grandi talenti in tutte le professionalità del cinema, ma per fare il salto di qualità servirebbero budget che in pochissimi possono permettersi. Non è un caso che in America il cinema si chiami industria e da noi sia sempre e solo la settima arte". Ed è su queste parole che, alla fine dell'incontro, scorrono i titoli di testa di un'altra carriera e nuove ambizioni.