In Robin Hood - Principe dei ladri, il film con Kevin Costner, Little John, parlando di Will Scarlet, dice al protagonista: "Non fare caso a lui: è pieno di piscio e vento!" Una battuta volgare, ma memorabile. Cominciamo la recensione di Babylon con il riferimento a un altro film per due motivi. Prima di tutto è nello spirito dell'opera di Damien Chazelle, che è ambientata negli anni '20 ma cita tutta la storia del cinema. Poi perché Babylon, nelle sale italiane dal 19 gennaio, ci ha effettivamente fatto pensare a Will Scarlet.
Il fratellastro di Robin Hood vive in balia delle proprie emozioni: da una parte odia Robin di Loxley. Perché è stato riconosciuto dal padre, perché ha vissuto nella ricchezza, perché ha un titolo nobiliare. Mentre invece lui è il bastardo, povero, dimenticato. Dall'altra lo ama: a differenza di loro padre, gli ha teso la mano, lo ha accettato. E poi perché è un leader carismatico. Tormentato tra il desiderio di rivalsa e quello di sentirsi finalmente parte di una famiglia, Will Scarlet prima tradisce Robin Hood, poi gli chiede perdono e combatte al suo fianco, diventandone il braccio destro più fedele.
Il rapporto tra questi due fratelli con madri differenti è simile a quello tra Babylon e tutto ciò che rappresenta Hollywood. Damien Chazelle ama la fabbrica dei sogni, questa idea che spinge a desiderare più di ogni altra cosa di "fare parte di qualcosa di grande". Dall'altra ne è ossessionato in modo quasi morboso. Proprio come Will Scarlet, il regista, il più giovane a vincere un Oscar, gira sotto l'effetto febbrile dei propri sentimenti. E Babylon è quindi esattamente questo: una pellicola in cui i personaggi sono più dei "portatori di emozioni forti" che delle figure caratterizzate a tutto tondo. In Babylon c'è tutto: l'eccitazione, la rabbia, la depressione, la paura, l'entusiasmo, la disperazione. È un caleidoscopio di umori, sia metaforici che fisici.
Uno spettacolo talmente ambizioso, arrogante, compiaciuto, ma anche sentito e sincero, che non può lasciare indifferenti. Vita e morte, bellezza e volgarità. Chazelle non ci risparmia niente. Apre il film come se fosse un Cinepanettone (c'è il primo piano di un elefante che libera il proprio intestino!) e chiude come se fosse 2001: Odissea nello spazio di Kubrick. Per questo può respingere senza possibilità di appello come coinvolgere totalmente. 189 minuti (forse troppi) che sembrano urlare allo spettatore: guardami!
Babylon: Margot Robbie e Brad Pitt nella "Hollywood Babilonia" di Chazelle
I protagonisti dei film di Chazelle hanno due cose in comune con lui: sono sognatori e sono ossessionati da quello che sognano. In Guy and Madeline on a Park Bench, suo film d'esordio, c'è un trombettista. In Whiplash un batterista. In La La Land un altro musicista e un'aspirante attrice. In First Man un astronauta, anzi, Neil Armstrong, ovvero il primo uomo sulla Luna. In Babylon abbiamo tutta una serie di personaggi che hanno come centro gravitazionale il set cinematografico. Pur di starci Manny (Diego Calva) è disposto a fare qualsiasi cosa. Dal trasportare elefanti ad andare a parlare con pericolosi gangster. Nellie LaRoy (Margot Robbie) non vuole diventare una star, sa di esserlo: le serve solo un'occasione. Jack Conrad (Brad Pitt) è invece un divo: amatissimo dal pubblico, deve affrontare il drammatico passaggio dal muto al sonoro.
Ognuno di loro è come in preda a una febbre: corrono, ballano, si drogano, fanno sesso, recitano, suonano. Senza soluzione di continuità: una volta che sei sotto l'incantesimo di Hollywood ci rimani dentro, imprigionato in un sogno che spesso si trasforma in un incubo. Irrazionale, dura e a volte generosa, la "fabbrica dei sogni" è un meccanismo che stritola tutti, dall'ultimo degli assistenti alla stella più luminosa. Eppure non si riesce a staccarsene: andare via significa magari vivere più a lungo, ma al prezzo di una minore intensità.
C'è questo in Babylon: il bisogno di consumarsi a doppia velocità, perché rallentare per i protagonisti significa morire. È un film di grandi eccessi: dalla prima, bellissima, scena di ballo, fino al ciak portato a casa al tramonto, proprio con l'ultimo raggio di sole utile. È per questo che la colonna sonora di Justin Hurwitz, fedele collaboratore di Chazelle dal suo primo film, è fondamentale: la musica e il sonoro sono il cuore di questo vortice di immagini, che arrivano direttamente alle parti più primordiali del nostro cervello, attivando ricordi e sensazioni.
Chi non ama visceralmente il cinema forse non può davvero capire l'esaltazione di Chazelle per certi dettagli, come la corsa forsennata di Manny alla ricerca della giusta telecamera, o la ripetizione, per almeno dieci volte, di una scena in cui Margot Robbie (sempre più brava e magnetica) deve posare una valigia sul giusto segno per terra. E anche chi lo ama potrebbe stancarsi di una pellicola ridondante, che porta tutto all'eccesso, allo sfinimento, citando, ripetendo, mescolando tutto più e più volte. Eppure c'è talmente tanta sincera vitalità in questi 189 minuti che vale la pena buttarsi in mezzo alla corsa.
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Soprattutto se si è nati dagli anni '80 in poi: Chazelle, classe 1985, è cresciuto con una cultura pop che si è fatta sempre più citazionista e popolare, che mescola l'alto e il basso, mettendo sullo stesso piano film come Matrix e classici quali Viale del tramonto. Una bulimia schizofrenica che porta ad amare il cinema a 360 gradi, non facendo differenza tra il prodotto di largo consumo e il film d'autore.
Un progetto che fa pensare subito a film considerati sbagliati, eppure così affascinanti, quali I cancelli del cielo di Michael Cimino. Mira alto, Chazelle: Babylon vorrebbe abbracciare tutti i cinefili, ma allo stesso tempo non è un film per tutti. Progetti così magari non saranno mai successi al botteghino, ma c'è qualcosa di romantico in queste imprese titaniche fatte in nome di una hybris artistica che vuole creare, appunto, "qualcosa di grande". Un film, come canta Emma Stone in La La Land, per "The Fools Who Dream".
Conclusioni
Come scritto nella recensione di Babylon, Chazelle realizza il suo "grande sogno": un film mastodontico, esagerato, lunghissimo (189 minuti). Tanta ambizione, forse anche arroganza, ma quanta vitalità e amore per ogni genere e tipo di cinema. Il regista mette sullo stesso piano alto e basso, cinema popolare e d'autore. Il film vorrebbe abbracciare ogni cinefilo eppure non è per tutti. Sicuramente non lascia indifferenti: non può che respingere senza possibilità di appello o coinvolgere totalmente. Ottima la colonna sonora di Justin Hurwitz e tutto il cast: con menzione d'onore a Margot Robbie, sempre più brava e magnetica.
Perché ci piace
- La grande capacità di Chazelle di fondere immagini e musica.
- Il cast: su tutti Margot Robbie, sempre più brava e magnetica.
- Il grande amore per ogni tipo e genere di cinema.
- L'ambizione e l'arroganza di voler fare "un grande film".
Cosa non va
- 189 minuti forse sono troppi, soprattutto quando si ripete più volte la stessa scena.
- Il film non approfondisce davvero i personaggi, che sono più in balia delle emozioni: se non ci si entra dentro non si empatizza.
- Alcuni potrebbero trovare sgradevole la presenza di praticamente ogni tipo di fluido e secrezione corporea umana (e non).