Più che un film è stato un fenomeno di costume, un evento imperdibile. Quando dieci anni fa, nel dicembre 2009 (da noi arrivato nel gennaio successivo), Avatar si mostrò al pubblico fu una rivelazione. E una rivoluzione. Il nuovo film di James Cameron meravigliò il mondo intero e fu in grado di battere il record che Cameron stesso aveva stabilito dodici anni prima con l'uscita di Titanic, un altro film entrato nell'immaginario collettivo.
A cosa era dovuta la febbre per Avatar? La novità del 3D, la spettacolarità, la tecnologia del performance capture e, sì, anche la semplicità della sceneggiatura. Da molti considerata il tallone d'Achille del film, la sceneggiatura basilare di Avatar è invece uno dei suoi punti di forza. Scopriamo perché.
Vedere Pandora, entrare a Pandora
Il grande successo di Avatar si deve, principalmente, all'utilizzo del 3D all'epoca innovativo. Sia chiaro che il pubblico aveva già avuto modo di sperimentare questa tecnologia in varie occasioni nei decenni passati. Negli anni Cinquanta, per contrastare l'interesse degli spettatori verso la comodità della televisione (curioso come settant'anni fa troviamo gli stessi problemi di oggi con i servizi streaming), le catene cinematografiche iniziarono a sperimentare nuovi formati e nuove modalità di visione di un film per accentuare lo spettacolo e donare al pubblico qualcosa che non poteva trovare nello schermo di una scatola in salotto. Nacquero così i primi film in formato panoramico VistaVision, l'esperimento del Cinerama (la proiezione con tre proiettori simultanei in modo da creare uno schermo gigantesco, antesignano dell'attuale IMAX) e, per la prima volta ad ampia diffusione, i film in tre dimensioni.
Questi esperimenti non ebbero lunga vita e il cinema in 3D venne riproposto anche negli anni Ottanta (ricordate Lo squalo 3?) sino ad arrivare, a fasi alterne, negli anni Duemila con Missione 3D: Game Over, ma soprattutto gli esperimenti d'animazione di Robert Zemeckis come Polar Express e La leggenda di Beowulf. Si trattava, in ogni caso, di possibilità di fruizione. Le sale in cui si poteva vedere il film in tre dimensioni non erano molte e la sensazione era quella di trovarsi di fronte a un semplice esperimento di semplice intrattenimento potenziato. James Cameron, invece, fece il passo successivo: girò e realizzò Avatar con l'idea che il 3D dovesse essere parte fondamentale dell'esperienza di visione. E così fu. La maggior parte dei cinema, anche in Italia, si attrezzarono per portare in sala il film così come Cameron l'aveva desiderato e il pubblico poteva indossare degli occhialini innovativi (che sostituivano i più conosciuti e antiquati anaglifici con le lenti rosse e verdi) e catapultarsi in maniera mai così immersiva nel mondo di Pandora. Il successo di Avatar aprì le porte a una proliferazione di film in 3D che, però, non ne replicarono la qualità e sancirono ancora una volta, dopo poco più di un anno, il tramonto della terza dimensione.
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Il racconto intorno al fuoco, intorno a noi
Fin dall'alba dei tempi l'uomo è rimasto affascinato dai racconti, dai miti, dalla funzione sociale di raccogliersi con altri suoi simili e condividere il piacere delle opere narrative. Quando un film viene proiettato e inizia a svolgersi di fronte ai nostri occhi prende vita la forza primigenia del racconto. Nel corso degli anni il cinema si è evoluto: da un'inquadratura fissa di pochi secondi è nato il montaggio, dal bianco e nero si è passati al colore, dalla lettura di didascalie in cui erano scritti i dialoghi si sono aggiunti il sonoro e le voci degli attori. Sono tutte evoluzioni di un'arte che nasce visiva. Ecco perché il maggior pregio di Avatar risiede nella proprietà basilare del cinema, quella degli occhi, e che il 3D, realizzato in quella maniera, potenzia.
Le foglie degli alberi che fluttuano nell'aria, i piccoli insetti notturni che ronzano incuranti dei protagonisti, il mondo vivo, tangibile, vero, reale di un pianeta completamente inventato e tuttavia coerente, affascinante, imperfetto come il pianeta dove viviamo. Non sono solo i personaggi del film (e noi con loro) a vivere una nuova vita con l'Avatar dei Na'Vi, ma è lo stesso Pandora un avatar del nostro pianeta Terra. Il grandioso risultato di James Cameron è stato quello di farci raccogliere intorno al fuoco per una storia e dar vita a quel fuoco, immergendoci dentro in modo da non esserne esclusi, in modo tale da trasformare la storia di Jake e dei Na'Vi nella nostra storia. Dando vita a un ecosistema così minuzioso nel quale perderci, possiamo far nostra la frase d'amore "Io ti vedo" che Neytiri pronuncia verso Jake. Noi non guardiamo Avatar, lo vediamo.
Non idee semplicistiche, ma viscerali
La totale immersione, il pianeta vivo e reale, l'espressività degli attori trasformati in alieni, nulla di tutto questo avrebbe avuto così tanto successo se la sceneggiatura non fosse stata semplice. Ancora oggi, a distanza di dieci anni, Avatar viene considerato un film ottimo solo dal punto di vista degli effetti visivi, ma scontato e banale nella storia che racconta che richiamerebbe fin troppo bene altri racconti a noi ben noti come, per esempio, quello di Pocahontas (che sia la versione Disney o la più autoriale di Malick poco cambia). In effetti se volessimo riassumere in poche ciniche righe il film potremo archiviarlo come la solita storia dell'eroe conquistatore che, innamorandosi di un'indigena, prende le difese della sua tribù anziché colonizzarla rivoltandosi contro i suoi superiori. Così facendo, però, rischieremo di banalizzare ogni opera di space fantasy e non solo. Diciamocelo: la struttura delle storie è un po' sempre la solita e, per quanto possa sembrare assurdo, è proprio nella ripetizione e nella riproposizione anche schematica di certi temi, sviluppi, archetipi che ci sentiamo a nostro agio e percepiamo che quella storia è raccontata "nella maniera giusta".
La sceneggiatura di Avatar, sì ripropone certe dinamiche e certi risvolti narrativi ormai assimilati e comuni a molte storie che ci sono già state narrate, ma si tratta di una scelta voluta e che risulta, alla fine dei conti, vincente tanto da non dover essere considerata un difetto. Gli archetipi narrativi di Avatar ci permettono, una volta di più, di prestare più attenzione all'esperienza sensoriale e immersiva del film mettendo in secondo piano la complessità narrativa. Come a dire che il senso di Avatar non sta nelle proprietà della scrittura e della letteratura, ma in quelle della visione e del cinema. Considerare il film un'opera banale solo per la semplicità del racconto sarebbe fare un torto a un'opera che si propone come un'immersione nel mondo che racconta, capace di stimolare la meraviglia attraverso ciò che rende cinema il cinema.
Vedere Pandora, vedere noi stessi
C'è un momento del film in cui Cameron rende esplicito il legame che abbiamo noi spettatori con gli indigeni di Pandora, gli avatar dei protagonisti del film e gli avatar che a livello metacinematografico rappresentiamo. Si tratta della dolorosa sequenza della distruzione dell'Albero Casa che, ripresa con taglio documentaristico, ricorda l'11 settembre e la tragedia delle Torri Gemelle. Non è scontato rappresentare, all'interno del genere fantascientifico, il punto di vista dell'alieno. Anche nei film più famosi e sentimentali (pensiamo ad E.T. L'Extraterrestre di Steven Spielberg), per non parlare dei classici sull'invasione aliena, il punto di vista è sempre quello dell'uomo che si approccia all'alieno, al diverso, al non-umano. In Avatar, invece, l'invasione aliena è a ruoli invertiti o, per meglio dire, mantenendo il punto di vista dell'umano Jake, ci identifichiamo sorprendentemente più con gli alieni che con gli altri umani.
In un gioco di specchi, se nel film l'uomo diventa l'alieno, l'alieno a sua volta diventa l'uomo. Di conseguenza, la sceneggiatura semplice nasconde alcune tematiche per niente banali che rendono Avatar un film molto più stratificato rispetto a una lettura superficiale. Non è solo un racconto morale e ambientalista contro l'imperialismo e il colonialismo, ma è anche un invito a immedesimarci nell'alieno, nel diverso, nell'altro. Grazie alla sua sceneggiatura lineare, unita alla tridimensionalità, Avatar ci invita, in un'epoca - quella del 2009 e ancora attuale, seppur leggermente diversa - a usare i nostri nickname e i nostri avatar per condividere esperienze, conoscersi, mostrarci e non nasconderci. Se si è tutti alieni si è, di conseguenza, tutti umani. Gli archetipi narrativi riproposti facilitano la nostra immedesimazione nel mondo sconosciuto così da prenderne a cuore la cultura, l'ambiente e chi ci vive al suo interno. Così, nel dire "Io ti vedo" vediamo, per riflesso, anche noi stessi.