Dopo l'appassionato Loving Vincent, vero e proprio giallo della scomparsa di Van Gogh animato ricreando fotogramma per fotogramma il suo inconfondibile stile pittorico, At Eternity's Gate tenta di ridefinirne il mito attraverso la ricostruzione dei suoi ultimi anni di vita. Il biopic di Julian Schnabel con Willem Dafoe protagonista, in concorso a Venezia 2018, riesce a sondare sia l'uomo che l'arista, a parlarci del pittore senza dimenticarsi del senso ultimo della pittura.
Quando un artista conosce un successo postumo, la sua eredità è tutta lì: nelle sue opere, nella sua visione delle cose e soprattutto nel modo in cui lo dipingeranno gli altri. Vincent Van Gogh, deceduto in povertà a soli 37 anni, fa parte di quella cerchia di geni incompresi glorificati dall'immaginario collettivo soltanto dopo la sua morte. Quello che ci resta di lui, oltre alle notti stellate e ai girasoli, al di là di una pittura veemente e poetica, è il ricordo di una persona tormentata, irrequieta e infelice. Celebre per essersi persino tagliato un orecchio e probabilmente suicidato, il pittore olandese ha attraversato il tempo sotto forma di anima in pena. Uno stereotipo mitigato da chi ha voluto scavare con più attenzione dentro una sensibilità umana e artistica non comune, trovandoci anche tenerezza, ingenuità e amore nei confronti della Natura.
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Il tutto suggellato da un Willem Dafoe straordinario, mai sopra le righe, capace di evocare i desideri e le frustrazioni di Van Gogh attraverso i suoi occhi vibranti. Arrivati al Lido per presentare il film, il regista e l'attore ci hanno raccontato il loro approccio a un personaggio finalmente diventata persona.
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Un approccio sensoriale
Nelle sequenze poetiche, riflessive e intimiste di At Eternity's Gate c'è il tatto di chi sa bene cosa si prova davanti a una tela. È importante ricordare che, oltre a essere un regista, Schnabel è un pittore. Dal film emerge tutta la sua consapevolezza della materia, ma soprattutto un sincero e affettuoso rispetto nei confronti di un talento bistrattato come Vincent Van Gogh: "Ci tengo subito a dire una cosa. Questo film non è una biografia canonica, ma un'opera che tenta di avere un approccio sensoriale alla sua storia, proprio come Vincent lo aveva con la pittura. Pensateci: ormai tutti pensano di sapere tutto quello c'era da sapere su di lui, quindi sarebbe stato inutile e assurdo fare un altro film sulla sua vita. L'idea è nata mentre io e gli sceneggiatori eravamo all'interno del Museo d'Orsay. Eravamo davanti ai suoi dipinti, ci siamo avvicinati, li abbiamo scrutati e quando siamo usciti ci siamo accorti di avere ancora addosso un'emozione fortissima. Ecco, il mio obiettivo è quello di restituire attraverso il film quelle sensazioni, per cui credo che sia un film molto difficile da descrivere e da raccontare senza averlo vissuto". Sulla documentazione e sulla veridicità della storia, il regista ha aggiunto: "So tante cose su di lui, ho letto tutte le sue lettere e mi definirei un suo cultore. In ogni caso, io non mi preoccuperei dell'assoluta autenticità della storia, perché ogni storia è una bugia, ogni racconto è una versione di una parte di verità.
Anche la questione del presunto omicidio o suicidio non è pertinente col tema centrale del film. Ci sono varie possibilità e varie interpretazioni". Nel film, Van Gogh dipinge quasi in preda a un istinto viscerale, come fosse posseduto dal suo stesso genio. Sul tema Julian Schnabel ha aggiunto: "Io penso che lui fosse estremamente lucido e conscio di tutto quello che gli accadeva. Vincent sapeva esattamente dov'era e cosa stava facendo. Tra le tante cose che aveva in mente, penso ci fosse anche il suo rapporto con l'eternità. Van Gogh si era rassegnato al fatto che non avrebbe vissuto ancora a lungo, per cui si interrogava sulla sua eredità artistica e umana. La scelta di Willem? Non pensavo a nessun altro che non fosse lui, perché è un attore fisico e profondo. L'ho visto pensieroso all'inizio ma sapevo già che sarebbe stato il migliore alleato per questo film".
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Vincent Willem van Gogh
Il secondo nome di Vincent era Willem. Un destino già scritto in qualche notte stellata. Willem Dafoe, nonostante abbia quasi 30 anni in più dell'ultimo Van Gogh, riesce nell'impresa di incarnarne a meraviglia le inquietudini. Tra rabbia e dolcezza, rancore e fame d'affetto, il suo Vincent è un'anima irrequieta e vagabonda. Una personalità fuori dal comune a cui Dafoe si è approcciato così: "Senza dubbio le lettere sono state una fonte inesauribile per accostarmi a Van Gogh, e concordo con Julian: la sua lucidità è evidente. La sua mente non era affatto offuscata. Dalle sue parole emergono una visione speciale dell'arte e dell'essere artista, per questo lo considero un genio torturato oltre che un grande scrittore. Scriveva delle frasi bellissime, dei concetti davvero profondi. Ad esempio il fatto che si possa guarire attraverso la malattia. Credo che Van Gogh sia andato oltre il pensiero del suo tempo, era al di là della sua epoca. Come ci si prepara a un ruolo simile? Per prima cosa studiarlo attraverso tutto il materiale presente su di lui. E poi ho dovuto imparare a dipingere, ovvero qualcosa di fondamentale e complesso perché dovevo sembrare disinvolto durante ogni singola pennellata. Ecco, imparare a dipingere è stata la chiave per capire davvero cosa stessi facendo, per comprendere a fondo la sua connessione con la Natura e comprendere in modo fluido il suo pensiero". Curioso, infine, il parallelismo tra Van Gogh e Gesù, entrambi due incompresi nel loro tempo, eletti a simboli soltanto molti anni dopo la loro morte. Curioso soprattutto perché Dafoe ha interpretato anche il figlio di Dio ne L'ultima tentazione di Cristo. Anche questa volta, si parla di una lunga passione, intesa come sofferenza, ma soprattutto come innamoramento nei confronti di un mondo dipinto con grazia e brutalità.