Sono diversi i registi ucraini che ci hanno raccontato della crisi in Donbass, passata ad un vero e proprio conflitto il 6 aprile del 2014, quando dei manifestanti armati riconducibili alle forze separatiste appoggiate dal regime di Putin occuparono alcuni palazzi governativi nella regione più Orientale del Paese. Movimenti, questi, che facevano parte di moti di protesta anti-governativi ben più ampi e che si svilupparono in concomitanza con l'annessione alla Federazione Russa della Crimea. Premesse per una prima fase delicata il cui momento topico coincise con la richiesta dei secessionisti di un referendum per raggiungere l'indipendenza, negato dall'Ucraina, ma che si tenne comunque l'11 maggio di quell'anno. Tanti registi, dicevamo, hanno provato a scuotere il Mondo Occidentale da un apparente torpore che lo animava nei confronti di una tragedia che fin dalla nascita era prevedibile finisse con il costare tanto ad una nazione chiave per gli equilibri del Vecchio Continente, ulteriormente oscurata dall'avvento della Pandemia. Un costo che nella mente degli ucraini in tempi non sospetti aveva tra le opportunità più papabili quello dello scontro con la Russia.
Tra loro il più importante è Valentyn Vasyanovych, impegnato al fronte all'inizio dell'invasione (forse anche ora, non lo sappiamo per certo), proveniente dalla scuola della leggenda del cinema polacco, Andrzej Wajda, e due volte scelto per rappresentare il suo Paese per la corsa Premio Oscar, la prima nel 2018 con Riven' čornoho e la seconda l'anno dopo, con la sua quarta pellicola, Atlantis, vincitrice di Orizzonti a Venezia76. Quella che interessa a noi in questa sede. Nonostante, infatti, anche il suo ultimo lavoro, Reflection, trattasse del conflitto in Ucraina, la pellicola sopranominata è quella che più di ogni altra esprime la straordinaria capacità, tutta cinematografica, di rielaborazione della storia contemporanea. Per questo protagonista, tra l'altro, di un cortocircuito incredibile per il pubblico italiano, data una distribuzione (operata dall'encomiabile lavoro di Wanted Cinema) avvenuta neanche un paio di mesi dopo l'inizio dell'"operazione speciale" di Putin, 11 aprile 2022.
Atlantis adopera la distopia per portare sullo schermo le conseguenze "ipotetiche" dei timori dell'Europa orientale e di tutto il mondo, immaginando uno scenario post bellico che aveva visto una drammatica escalation di un conflitto inizialmente più localizzato. Oggi, primo anniversario (e speriamo ultimo) dell'invasione, la pellicola di Vasyanovych assume le fattezze di un messaggio da un passato lontano, un eco da una realtà pre-pandemica, dimostrando come ci sia stato per tutto questo tempo un evidente scollamento tra gli incubi ucraini e il resto della comunità e, di conseguenza del cinema, internazionale. Inserendo nelle modalità del suo raccontare persino messaggi di speranza e di unione per i due popoli in guerra, ennesimo compito che solo la Settima Arte può assolvere.
Ucraina, 2025
Nel 2025 è passato appena un anno dalla fine del conflitto tra Russia e Ucraina. Il mondo è cambiato, l'Europa Orientale non è più come ce la ricordavamo e una fauna in Donbass non esiste praticamente più. Il Paese è ormai ridotto ad un arido teatro vuoto, grigio e ostile, abitato solamente da fantasmi di un tempo che fu e da roccaforti fatiscenti. Più che altro fonderie.
Gli unici frutti che ora la terra riesce a fornire sono i cadaveri di coloro che sono caduti durante il conflitto, una sfilza di corpi che ha contaminato le fondamenta della regione, ma anche quelle delle anime che si trascinano ancora lungo quelle lande desolate, mosse da soli due scopi: non farsi saltare in aria a causa di mine inesplose e tentare una bonifica spirituale che passa prima di tutto dalla rielaborazione di quell'orrore rintracciabile negli occhi senza vita di uomini, donne e bambini che man mano riaffiorano.
Il protagonista di Atlantis è l'ex soldato Sergeij, affetto da disturbo post traumatico da stress, che, di fronte all'ennesima perdita subita, decide di intraprendere un nuovo viaggio alla volta di quella terribile zona maledetta per la quale aveva così duramente combattuto e che, a discapito di come è divenuta, costituisce ancora l'unico luogo in cui può ancora sentirsi a casa. Una cosa, l'unica cosa forse, che, evidentemente, neanche la guerra può cambiare. In quei luoghi dimenticati dalla luce del sole si trova un'associazione di volontari, specializzata nel recupero dei cadaveri originati dal conflitto, guidata da Katya, una dottoranda in archeologia che, ironia della sorte, si trova a recuperare dei corpi che, nonostante provengano comunque da un'altra epoca, non è detto che siano così più vecchi di lei.
Un messaggio da un altro mondo
Il significato di Atlantis oggi, inverno 2023, supera quel famoso cortocircuito di cui si parlava nell'introduzione perché l'evoluzione della drammatica situazione geopolitica in questo tempo ha permesso a noi spettatori di acquisire una consapevolezza più importante rispetto all'iniziale stato di profonda paura e smarrimento, arrivato dopo uno stress che ha ci ha messo a dura prova negli ultimi due anni e mezzo. Ora, a riguardarla, si riesce ad andare oltre la sua fine capacità predittiva e al senso di colpa che infonde a tutti noi che abbiamo praticamente ignorato (non si vuole fare qui di tutta l'erba un fascio, ci mancherebbe, si parla sempre di una percezione da opinione pubblica) la pericolosità di ciò che stava accadendo così vicino ai nostri confini. A riguardarla oggi si riesce ad andare oltre all'idea di denuncia politica insita nella pellicola, ma anche alla sua volontà di urlare, di provocare uno scossone o al suo intento, quasi documentaristico, seppur sempre permutato attraverso la fiction, di ricostruzione della vita durante un conflitto.
Il film di Vasyanovych, infatti, non ci racconta una storia di guerra, senza speranza, piena di orrore e sgomento, ma ci racconta del pellegrinaggio di un uomo che si fa rappresentante di un Paese intero, alla ricerca di un proprio posto nel nuovo mondo e che non può fare altro che ricominciare da una riappropriazione del sé e quindi dei suoi spazi, i suoi alberi, i suoi fiumi e i suoi morti. Un'idea di orizzonte, di fine luminoso, oltre le pianure deserte, le valli spezzate e i fiumi avvelenati. C'è un senso di ottimismo, timido, ma consapevole, che permea il film soprattutto nelle sue scelte di apertura e chiusura in cui le idee stesse di vita e di morte vengono praticamente sovvertite. Non solo, il film in sé è testimonianza di un sapere che appartiene alla tradizione umana e non solo ucraina, dato che prende molto da altre fonti letterarie (in primis 1984 di George Orwell) e, soprattutto, da pensieri cinematografici anche rimandanti a personalità che appartengono alla nazione avversaria.
Atlantis è una pellicola fortemente inserita nella tradizione slava e che nelle sue scelte visive (piani larghi e camere fisse), ma anche tematiche (uomo contro Natura), sembra rifarsi sia al maestro del suo regista sia ad un altro monumento come Andrej Tarkovskij, con tutta probabilità il più importante cineasta russo, e che, più di ogni altro dei suoi compatrioti, ha dovuto subire le angherie della sua patria. Come quelle che lo hanno portato a passare gli ultimi anni della sua vita in Italia, in attesa di un ritorno che non si è mai compiuto. Questa è una lettura che potrebbe non incontrare i favori di tutti, ma che, se fosse reale, sarebbe una messaggio di incredibile speranza da parte di Vasyanovych, che nel suo film più disperato decide di inserire un ponte verso il futuro e anche verso un'unità che è, a oggi, a un anno dall'inizio dell'invasione Russa, è, purtroppo, francamente impensabile.