Recensione Vinyan (2008)

Coraggioso, trasgressivo, eccessivo e a tratti disturbante, Vinyan è un viaggio intimista del regista e dei protagonisti in una dimensione che va oltre il cinema, in una cultura in cui la morte è considerata la continuazione naturale della vita.

Anime erranti nella giungla

Jeanne e Paul vivono un dramma che li sta distruggendo. Il loro piccolo Joshua è stato inghiottito dallo Tsunami che li ha colpiti mentre erano in vacanza a Phuket e a sei mesi di distanza non sono ancora riusciti a tornare in Inghilterra. Il corpo del piccolo non è mai stato ritrovato e mentre Paul è sempre più convinto che non ci siano speranze, Jeanne non riesce a darsi pace. Per lei il piccolo non è morto nella grande onda ma è stato rapito dai trafficanti di bambini nel caos che è seguito alla catastrofe. Ipotesi che si rafforza nella sua mente quando durante una serata di beneficenza la donna crede di riconoscere il figlioletto nelle immagini di un documentario girato in Birmania. Scettico ma deciso a non lasciare nulla di intentato, Paul asseconda i desideri di sua moglie e in un estremo gesto d'amore finanzia un viaggio della disperazione attraverso i villaggi della giungla tailandese alla ricerca del piccolo. Un'esperienza tanto straniante quanto spettrale in cui realtà e immaginazione si confondono fino a fondersi accompagnati dal boss della zona, tale Thaksin Gao, al settimo cielo per aver trovato due galline dalle uova d'oro da spennare...

Opera seconda del trentaseienne regista belga Fabrice Du Welz, grande fan del cinema del brivido e autore del cult horror Calvaire (presentato con successo alla Settimana della Critica di Cannes 2004), Vinyan è un dramma familiare narrato con uno stile e un'ambientazione che a tratti ricorda i B-movies trash degli anni '70, piccoli cruentissimi capolavori - presenti in larga parte anche nella nostra cinematografia - contraddistinti da una paranoia dilagante derivante da influenze voodoo, erotismo spinto, cannibalismo e violenza di ogni tipo. Eroina sensuale e tormentata, di quello che inizia come un doloroso dramma sull'elaborazione del lutto per poi trasformarsi in un umido e fangoso ghost-movie, un'eccellente Emmanuelle Béart, madre coraggio disposta a qualunque cosa pur di ritrovare suo figlio, anche a farsi sopraffare dalla follia e a farsi inghiottire per sempre da quei luoghi dimenticati da Dio.

Coraggioso, trasgressivo, eccessivo e a tratti disturbante, Vinyan (che in tailandese significa anima errante) è un viaggio intimista del regista e dei protagonisti in una dimensione che va oltre il cinema, in una cultura in cui la morte è considerata la continuazione naturale della vita, in cui la natura domina sugli uomini senza che questi riescano a difendersi o a prevederlo, in cui sono i vivi ad entrare in contatto con il mondo dei morti e non viceversa come accade solitamente nell'immaginario collettivo occidentale o nei classici film di fantasmi.

Girato con camera a mano e ambientato in luoghi tanto inospitali quanto pericolosi, Vinyan è un'esperienza allucinante a tratti anche affascinante che non può lasciar indifferenti, ma che nel finale inciampa clamorosamente in un delirante e macabro raptus di follia disorientando lo spettatore inerme, impreparato e incredulo di fronte ad un simile raccapricciante epilogo. La Natura la fa da padrona in Vinyan apparendo sin dall'inizio imponente, magnifica, terrorizzante, viscida e oltremodo opprimente, un'entità che osserva e studia il suo avversario come accade prima di ogni battaglia. Paesaggi meravigliosi da ammirare ma che incutono ansia, che minacciano di insorgere contro l'uomo, che lo sovrastano e incombono sul suo destino senza pietà.
Presentato Fuori Concorso alla 65ª Mostra Internazionale d'Arte cinematografica di Venezia, Vynian uscirà nelle sale francesi il 1 ottobre distribuito da Wild Bunch.

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2.0/5