Per introdurvi la nostra recensione di American Skin, presentato in anteprima mondiale nella sezione Sconfini alla Mostra del Cinema di Venezia 2019, può essere utile spendere qualche parola sull'autore del film, il trentanovenne Nate Parker, regista, sceneggiatore ed interprete principale, qui al suo secondo cimento dietro la macchina da presa a più di tre anni di distanza dal suo sorprendente esordio, The Birth of a Nation. Figura decisamente controversa in patria (nel 2016 è stato travolto infatti dallo scandalo legato ad accuse di uno stupro che sarebbe avvenuto nel 1999), Parker ha polarizzato le reazioni alla sua opera prima, rivelatasi un mezzo fiasco al box office a dispetto dell'iniziale favore della critica.
Il colore dell'America
Il titolo American Skin rievoca quello della canzone di Bruce Springsteen American Skin (41 Shots), ispirata all'omicidio del giovane immigrato Amadou Diallo nel 1999 da parte di quattro agenti di polizia, e rimanda immediatamente al tema centrale del film: un film in cui il colore della pelle diventa oggetto di dibattito e terreno di scontro in un'America dilaniata da pregiudizi e tensioni razziali. La storia di American Skin è imperniata infatti sulla morte di un ragazzo afroamericano adolescente, ucciso a colpi di pistola dal poliziotto Mike Randall (Beau Knapp) durante un banale controllo dei documenti, sotto gli occhi del padre Lincoln (Nate Parker), devastato dal dolore per il lutto.
Il nome del protagonista non potrebbe essere più emblematico: con il suo duplice richiamo a uno dei padri fondatori degli Stati Uniti e al Presidente che avrebbe portato all'abolizione della schiavitù, Lincoln Jefferson rievoca gli ideali di libertà e di uguaglianza alla base della Costituzione americana. Quegli ideali rivendicati con un furioso desiderio di rivalsa in The Birth of a Nation, basato sulla vera storia dello schiavo ribelle Nat Turner, e a cui si appella anche Lincoln nella sua richiesta di giustizia per la tragica fine del figlio. Una richiesta destinata a rimanere inascoltata e che indurrà un giovane studente di cinema, Jordin King (Shane Paul McGhie), a dedicare alla vicenda un documentario intitolato appunto American Skin.
The Birth of a Nation: l'urlo e il furore contro lo schiavismo
La parola ai giurati
Tale elemento metacinematografico, particolarmente rilevante nella prima parte del racconto, offre anche diversi spunti di riflessione sul ruolo di internet e delle nuove tecnologie come veicoli di comunicazione e di diffusione delle informazioni: più volte, nel corso del film, i personaggi entrano in rapporto tramite videochat e altri strumenti informatici. Ma sul piano narrativo il punto di svolta arriva solo più tardi, quando Lincoln, deluso e frustrato dal funzionamento del sistema giudiziario, deciderà di compiere un'azione radicale: indire un nuovo 'processo' nei confronti del responsabile della morte di suo figlio, in una stazione di polizia presa d'assedio e posta al centro dell'attenzione mediatica.
È la sezione più intensa e più tesa di American Skin, con un doppio riferimento al grande cinema di Sidney Lumet: da una parte Quel pomeriggio di un giorno da cani, di cui Nate Parker recupera la dimensione claustrofobica da psicodramma sul rapporto fra il protagonista e i suoi ostaggi; dall'altra La parola ai giurati, con un lacerante conflitto etico consumato attraverso una sfida dialogica fra posizioni opposte, fino a portare a galla contraddizioni e pregiudizi della società americana. Con una vis polemica e una rabbia di fondo che, tuttavia, sono più vicine a un autore quale Spike Lee, non a caso fra le poche voci ad aver elogiato apertamente il lavoro di Parker.
La parola ai giurati: perché dopo 60 anni il film di Sidney Lumet è più attuale che mai
Conclusioni
Nella recensione di American Skin abbiamo delineato le principali caratteristiche di un film che, sulla scia del precedente (e più riuscito) The Birth of a Nation, torna ad affrontare con piglio fieramente militante e ferocemente polemico il nodo del razzismo contro le minoranze afroamericane, mettendo sotto accusa, nello specifico, gli atti di violenza commessi dalle forze dell’ordine e spesso al centro di episodi di cronaca. E se l’approccio di Nate Parker può rischiare di apparire manicheo, in ogni caso è difficile restare indifferenti alla forza emotiva che percorre questo American Skin, in particolare nelle sue battute conclusive.
Perché ci piace
- L’interessante costruzione drammaturgica del film, in cui la tensione crescente esplode nella parte finale.
- Una grande intensità drammatica, a cui contribuiscono le ottime prove del cast.
- Il coraggio con cui Nate Parker prende di petto alcuni dei temi più spinosi legati al razzismo in America.
Cosa non va
- Un approccio alla materia per certi aspetti discutibile e non privo di semplificazioni e forzature.