Rimane il fatto che, in ogni modo, capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando.
L'incomprensibilità dell'essere umano: è l'assioma alla base di ogni tipo di rapporto secondo la prospettiva espressa da Philip Roth all'interno del suo capolavoro del 1997. Ma Pastorale americana, vincitore del premio Pulitzer come miglior opera di fiction, non è soltanto uno dei numerosi, grandi libri partoriti dalla penna più celebrata e irriverente dell'ultimo mezzo secolo: senza timore di iperbole, il romanzo di Roth costituisce la pietra angolare della letteratura angloamericana di fine secolo, un fondamentale punto d'arrivo per tutta la narrativa che, in questi decenni, ha provato a riflettere su trasformazioni, utopie e disillusioni della civiltà occidentale.
Provare a condensare le oltre quattrocento pagine di Pastorale americana in una trasposizione cinematografica era un'impresa proibitiva: non tanto per la materia in sé, non certo così vasta da non poter essere compressa nell'arco di poco meno di due ore, quanto per la travolgente densità della prosa di Philip Roth. Una prosa che, come sapranno bene gli affezionati dello scrittore di Newark, ad ogni pagina rischia di lasciar intravedere profondità insondabili, di aprire nuovi interrogativi piuttosto che fornire risposte; in sostanza, una prosa che ci mette di fronte al reale - la storia, il presente - in tutta la sua inestricabile complessità.
Ascesa e caduta dello Svedese
Ma nello stesso anno in cui James Schamus, sceneggiatore di fiducia di Ang Lee, ha realizzato Indignation, adattamento del breve romanzo di Roth del 2008, American Pastoral approda sugli schermi con la regia di un illustre esordiente, Ewan McGregor. Ed è proprio lo scozzese McGregor a prestare il suo volto da eterno bravo ragazzo all'americanissimo "Svedese", soprannome affibbiato fin dai tempi della scuola a Seymour Levov. Nato e cresciuto a Newark (come Roth), nel New Jersey, figlio dell'imprenditore ebreo Lou Levov (Peter Riegert), Seymour rappresenta la perfetta incarnazione dell'American Dream, come spiegato fin dal folgorante incipit del romanzo: "Lo Svedese. Negli anni della guerra, quando ero ancora alle elementari, questo era un nome magico nel nostro quartiere di Newark, anche per gli adulti della generazione successiva a quella del vecchio ghetto cittadino di Prince Street che non erano ancora così perfettamente americanizzati da restare a bocca aperta davanti alla bravura di un atleta del liceo. Era magico il nome, come l'eccezionalità del viso".
A delineare la parabola discendente di Seymour Levov, nel corso di un'analessi che copre quasi l'intero spazio del film, è suo fratello Jerry (Rupert Evans), interpellato durante una reunion scolastica dall'amico d'infanzia Nathan Zuckerman (David Strathairn). Il 'mito' dello Svedese viene così rievocato e demolito pezzo dopo pezzo: diventato gestore della fabbrica di guanti di proprietà del padre, Seymour sposa la sua fidanzata del liceo, la "reginetta di bellezza" Dawn Dwyer (Jennifer Connelly), e si trasferisce con lei nella quiete idilliaca di una casa di campagna nella piccola Old Rimrock. Questa 'pastorale', tuttavia, è destinata ad essere intaccata da un conflitto che assumerà dimensioni sempre più ampie: quello fra i coniugi Levov e la loro unica figlia, Meredith, detta Merry. Prima bambina balbuziente (Ocean James), poi adolescente inquieta (Hannah Nordberg), Merry resta traumatizzata dalle immagini del monaco buddhista Thích Quang Dúc che si dà fuoco davanti a una telecamera: un trauma che si evolverà assumendo le forme di un moto di rifiuto e di indiscriminata protesta contro la guerra del Vietnam, ma più in generale contro quell'American way of life identificabile proprio nella placida esistenza della famiglia Levov.
America ieri, America oggi
Come nel libro di Roth, anche nel film di McGregor il fulcro del racconto consiste dunque nell'incomunicabilità fra Seymour e una Merry ormai alle soglie della maggiore età (e con il volto di Dakota Fanning), determinata a rifiutare tutti i modelli - sociali, etici, culturali - proposti dai suoi genitori, a costo di scatenare un contrasto generazionale le cui conseguenze si riveleranno atroci e irrimediabili. Se però tale contrasto viene esplorato da Roth passo dopo passo, in tutte le sue sfumature, il copione di John Romano (anch'egli originario di Newark) procede invece per sommi capi, tentando di attenersi - fin troppo - alla fonte letteraria, lungo un percorso lineare che finisce però per appiattire la figura di Merry, già di per sé personaggio contraddittorio e impenetrabile. Pertanto, se la prudente sceneggiatura di Romano evita alla pellicola deragliamenti e passi falsi, la contropartita consiste in un'impostazione a tratti didascalica, mentre la presenza di Zuckerman, storico personaggio di Roth (e suo ideale alter ego), rimane confinata ad una mera 'cornice' di scarso rilievo.
In maniera analoga, Ewan McGregor opta per una regia dall'eleganza classica (con l'apporto del direttore della fotografia Martin Ruhe) che si sforza di rifuggire dalla tentazione dell'accademismo, ma che si concede giusto qualche guizzo e sconta un'eccessiva pulizia dell'immagine. La critica, perlomeno in patria, ha risposto con relativa freddezza a un'operazione tanto ambiziosa; ma nonostante i suoi limiti, questo American Pastoral può essere considerato un debutto di tutto rispetto, a patto di non nutrire aspettative troppo alte. Impossibile, del resto, nascondere una punta di rimpianto per un'occasione colta solo in parte, laddove magari un cineasta più navigato - o semplicemente più intraprendente - avrebbe osato 'stravolgere' l'opera di Roth per consegnarci un film di maggior impatto, tanto nella narrazione quanto nella messa in scena. La cronaca di questa disgregazione familiare non possiede la stessa forza delle pagine di Roth (e come eguagliarla, del resto?), ma la trasposizione di Romano e McGregor conserva comunque diversi motivi di interesse; e, sullo sfondo del disastro del Vietnam e delle tensioni razziali degli anni Sessanta, ci restituisce un amarissimo "poema del disincanto", la cui eco funesta sembra rimbalzare dall'America di ieri direttamente a quella di oggi.
Movieplayer.it
3.0/5