La sola cosa che avessi mai desiderato era poter cantare Dio: una bramosia che lui mi aveva dato... per poi rendermi muto! Perché? Me lo spieghi lei. Se lui non voleva che io lo esaltassi con la musica, perché instillarmene il desiderio, come una smania in ogni mia fibra, e poi negarmi il talento?
È uno sguardo rabbioso quello che Antonio Salieri, il devoto compositore della corte austriaca, rivolge al crocefisso appeso alla propria parete. Dio, del resto, è il silenzioso interlocutore di Salieri per l'intera, lunga confessione pronunciata dall'uomo: la confessione dalla quale prenderà forma l'analessi che, nell'arco di centosessanta minuti (centottanta nella director's cut pubblicata nel 2002), ricostruisce la folgorante parabola di Wolfgang Amadeus Mozart, il massimo genio musicale di ogni tempo. Se nel dramma teatrale di Peter Shaffer l'anziano Salieri si appella direttamente al pubblico, nel film di Milos Forman ad ascoltare invece le sue parole è proprio un rappresentante di Dio: il giovane sacerdote padre Vogler (Richard Frank), a cui verrà narrata la cronaca della logorante battaglia intrapresa dal compositore veneto contro Dio stesso. Un duello che, dal teatro al cinema, costituisce l'autentico nucleo drammatico di Amadeus.
Approdato per la prima volta sul palcoscenico il 2 novembre 1979, al Royal National Theatre di Londra, Amadeus avrebbe conosciuto una popolarità ancor più vasta a partire dal 19 settembre 1984: la data che, esattamente quarant'anni fa, sanciva il debutto nelle sale americane dell'omonima trasposizione cinematografica, adattata per lo schermo sempre da Peter Shaffer e affidata alla sapiente messa in scena del grande regista polacco Milos Forman. Un successo straordinario, quello che fin dall'esordio avrebbe accolto Amadeus, sancito all'epoca dalla vittoria di otto premi Oscar, tra cui miglior film e miglior regia, e certificato nei quattro decenni a venire dall'immenso fascino che la pellicola di Forman avrebbe continuato ad esercitare su diverse generazioni di spettatori. Un successo il cui merito va attribuito anche alla coppia di attori che, nel 1984, ha dato vita ai due co-protagonisti dell'opera: Tom Hulce, interprete di Mozart, e F. Murray Abraham, il volto del suo rivale Salieri.
L'oscuro Salieri di F. Murray Abraham
Originata sui teatri londinesi da Simon Callow (che nel film vestirà invece i panni di Emanuel Schikaneder, il librettista de Il flauto magico), un anno più tardi la parte di Wolfgang Amadeus Mozart viene ereditata a Broadway da Tim Curry, già maschera grottesca di The Rocky Horror Picture Show. Durante il casting per l'Amadeus di Milos Forman, a contendersi il ruolo del titolo sono Kenneth Branagh e il divo di Guerre stellari Mark Hamill, ma la scelta ricade sul trentenne Tom Hulce, che prima di allora si era fatto notare solo nella commedia corale Animal House. Nel frattempo, sul palcoscenico il ruolo di Antonio Salieri era stato assegnato a rinomati interpreti della tradizione teatrale britannica quali Paul Scofield, Frank Finlay e, a Broadway, Ian McKellen, ricompensato con il Tony Award; dunque, è tutt'altro che scontata la decisione di Forman di puntare su un attore statunitense pressoché sconosciuto, F. Murray Abraham.
Nato a Pittsburgh nel 1939, figlio di un immigrato siriano (la F del nome d'arte è un omaggio al padre Fahrid) e di una donna italo-americana, Abraham aveva intrapreso la professione d'attore alla fine degli anni Sessanta, con numerosi ingaggi a teatro e, in seguito, in qualche serie televisiva; al cinema, al contrario, aveva dovuto accontentarsi di una manciata di apparizioni della durata di pochi secondi in film quali I ragazzi irresistibili e Tutti gli uomini del Presidente. Nel 1983 è Brian De Palma a dargli il primo ruolo di rilievo, quello del gangster Omar Suárez, nella sua fortunata versione di Scarface; ma un anno più tardi, sarà Amadeus a regalare a F. Murray Abraham uno di quei personaggi che da soli valgono un'intera carriera. Antonio Salieri, dilaniato dall'invidia per le doti di Mozart, permette ad Abraham di disegnare un ritratto memorabile di questo tenebroso antieroe, guadagnandosi il Golden Globe e il premio Oscar come miglior attore, nella medesima categoria che vede candidato pure Tom Hulce.
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Il santo patrono dei mediocri
Se il Mozart di Tom Hulce, con la sua risata stridula e l'atteggiamento da fauno impertinente, è l'emblema del binomio "genio e sregolatezza", Antonio Salieri è una figura complementare: si tratta in tutto e per tutto di un uomo di corte, ammantato di una rigorosa compostezza e asservito alla necessità di compiacere l'Imperatore Giuseppe II (Jeffrey Jones). A differenza del sovrano, tuttavia, Salieri riconosce immediatamente la profondità abissale del talento di Mozart, la natura rivoluzionaria di quelle armonie talmente perfette da sconfinare nel divino: "Sposta una sola nota e si immiserisce tutto; cambia una sola frase e la struttura crolla. [...] Ecco di nuovo la vera voce di Dio. Ciò che contemplavo attraverso la gabbia di quei meticolosi tratti di inchiostro era di un'assoluta bellezza". Nel volto di Salieri convivono una celestiale meraviglia e una frustrazione divorante, spesso fusi in un amalgama da cui deriva il tormento insanabile che infuria nell'animo di questo personaggio.
La prospettiva prevalente, in Amadeus, è quella di Salieri, piuttosto che di Mozart: è lo sguardo torvo di F. Murray Abraham, acceso talvolta da lampi di beffarda autoironia, a guidare il nostro incanto in direzione del protagonista, a farci scontrare con il mistero indecifrabile della sua musica. Ma Mozart non è solo genio: è la passione con cui difende a spada tratta la propria musica da convenzioni, pregiudizi e censure, senza accettare il minimo compromesso; è il carisma strabordante di chi sa abbracciare al contempo il ridicolo e il sublime, con una naturalezza che per Salieri, appartenente alla cultura dell'Ancien Régime, non può che rimanere un'inconcepibile utopia. Pertanto, con il procedere del racconto, al nostro raccapriccio per la ghignante maschera malevola di Salieri si aggiunge man mano un sentimento nuovo: un'empatia, o perlomeno un'amara comprensione, per quell'individuo fragile e meschino, schiacciato dal peso di una mediocrità che, in fondo, è una componente inesorabile della condizione umana.