Recensione Non aprite quella porta: l'inizio (2006)

Pur non facendo gridare al capolavoro, questo prequel resta comunque un prodotto che merita un'occhiata da parte dell'appassionato, sospeso com'è tra consapevole omaggio e tentativo, non sempre riuscito, di svecchiamento dei temi del modello originale.

Alle radici dell'orrore

Se c'è un film che negli ultimi anni è stato oggetto di un vero e proprio "saccheggio" cinematografico, questo è senz'alto il cult Non aprite quella porta di Tobe Hooper. Tra remake ufficiali (quello del 2003 di Marcus Nispel) e non dichiarati (La casa dei 1000 corpi, Wrong Turn), oltre a "variazioni sul tema" che tradiscono chiaramente l'ispirazione (Alta tensione, Wolf Creek) il film di Hooper, che ha ormai più di tre decenni sulle spalle, si è dimostrato tuttora attualissimo, capace di influenzare in modo determinante un immaginario orrorifico teoricamente molto lontano da quello che aveva attecchito all'epoca della sua uscita. Il saccheggio (redditizio commercialmente, ma in alcuni casi anche artisticamente) può proseguire così senza sosta, con la New Line che, dopo aver prodotto il remake di tre anni fa, fa uscire ora questo prequel, che racconta le origini delle gesta criminali di Leatherface e famiglia.

La vicenda è ambientata nel 1969, in piena guerra vietnamita: il diciottenne Dean, che è stato appena chiamato alle armi, dovrà presto arruolarsi insieme al fratello maggiore Eric, volontario e militarista convinto. Il ragazzo, che in realtà non ha nessuna intenzione di partire, e progetta invece una fuga in Messico con la fidanzata Bailey, convince suo fratello e la fidanzata di lui a fare un'ultima vacanza all'insegna della spensieratezza, prima del supposto arruolamento. Il viaggio in macchina in Texas si trasforma però, presto, in un incubo: i quattro giovani sono vittima prima di una coppia di rapinatori, e poi di un folle sceriffo che costringe i due fratelli e la giovane Bailey a seguirlo presso la residenza degli Hewitt; qui li attende il macellaio Thomas, il futuro Leatherface, con i suoi familiari. Solo Chrissie, la fidanzata di Eric, è riuscita miracolosamente a sfuggire alla cattura, e cercherà così disperatamente un modo per salvare i suoi amici.

Il substrato politico è la prima cosa che salta agli occhi di questo Non aprite quella porta: l'inizio, più ancora di una ripetizione coatta di temi e atmosfere che rischia ad ogni momento di far precipitare l'operazione nel risaputo. La società rurale americana, con la sua grettezza e ignoranza incubatrici dei peggiori orrori, come anticamera della giungla vietnamita: qui come lì, i più deboli vengono schiacciati (metaforicamente e non), le diversità cancellate o rese organiche ai propri propositi omicidi. Lo stesso Leatherface (figlio non voluto prima, operaio espulso dal sistema produttivo poi) in fondo non è che un'altra vittima di questo ingranaggio, prima ancora di esserne uno strumento, a ben guardare mai consapevole ma spietatamente efficace nello svolgere il "lavoro sporco". Un proposito interessante, questo della metafora politica applicata ad un'operazione squisitamente commerciale, ma talmente esplicito e gestito con mano pesante da risultare fin troppo scolastico, e incapace di integrarsi davvero con l'orrore che il film vuole generare.

Nonostante questo, la bontà dell'idea va comunque riconosciuta, ed è uno degli elementi che salvano il film dal diventare una pura, meccanica ed inutile operazione di riciclo. A questo vanno aggiunti un generale, efficace senso di "sporcizia" (ottenuto anche grazie alle buone scenografie) e una graficità splatter ben più marcata rispetto al film del 2003, che soffriva di una confezione per certi versi fin troppo patinata. Il regista Jonathan Liebesman (che è stato, finora, un ottimo regista di cortometraggi: oltre al premiato Genesis and Catastrophe vanno citati i primi quindici minuti di Al calare delle tenebre, che preferiamo ricordare come un notevole cortometraggio piuttosto che come il prologo di un pessimo film) sceglie per alcune scene uno stile semidocumetaristico, con macchina a spalla e senso di disagio quasi "fisico": pur non rappresentando niente di nuovo e restando lontano anni luce dall'evidente modello hooperiano (che ben altro impatto ebbe, com'è facile immaginare, all'epoca), l'espediente ha una sua seppur semplice efficacia.

Così, pur non facendo gridare al capolavoro e non discostandosi, in fondo, dalla logica dei "cloni&remake" che il cinema statunitense con sempre più tenacia continua a propinarci, questo prequel resta comunque un prodotto che merita un'occhiata da parte dell'appassionato, sospeso com'è tra consapevole omaggio e tentativo, non sempre riuscito, di svecchiamento dei temi del modello originale. E intanto, nell'attesa che nuovi eroi splatter nascano in questo inizio millennio così cinematograficamente contraddittorio, noi continuiamo a salutare, di tanto in tanto e con rinnovato affetto, quelli vecchi, sempre più orgogliosamente immarcescibili.

Movieplayer.it

3.0/5