Alla ricerca di Walter Collins
La parabola di Clint Eastwood è ancora lontana da esaurire il suo percorso qualitativo. La 61° edizione del festival di Cannes celebra la sua ventottesima regia e ancora una volta il repubblicano dagli occhi di ghiaccio racconta una pagina scottante della sua America, ispirandosi alla vera storia di Christine Collins, madre single che improvvisamente, al ritorno da una giornata di lavoro straordinario, non trova più a casa suo figlio Walter, di nove anni. La donna si rivolge alla polizia che inizialmente si mostra poco allarmata, ma dopo qualche mese di ricerche dichiara di aver ritrovato Walter. Ma Christine scopre che il ragazzino ritrovato non è suo figlio, nonostante la somiglianza. Inizia così il suo calvario contro la polizia che pur di non essere contestata e di sbrigliare la matassa, adduce risibili motivazioni psicologiche sulla non accettazione del figlio dopo una così lunga assenza, arrivando persino a far rinchiudere la madre per la sua insistenza. Christine però non si arrende e, sostenuta dal reverendo Guistav Briegleb, da sempre aspro contestatore dei metodi della polizia, riesce a ottenere giustizia attraverso un caso giudiziario che ne attesterà tutte le colpe.
Il cinema di Eastwood ha del miracoloso. Non si tratta più di lodarne l'evidente asciuttezza, il grande classicismo o la lucidità analitica, quanto il suo prodursi quasi silente e irreversibile. Arduo trovare gli elementi critici interpretativi adatti per un cinema così invisibile da nascondere perfino i raccordi del montaggio. Sorretto dalla rigidissima sceneggiatura di J. Michael Straczynski, The Exchange scava nel tempo e racconta con l'usuale lucidità e una semplicità che lascia esterrefatti le nefandezze della polizia di Los Angeles e lo stupido accanimento su una madre a cui è stato ritrovato il figlio sbagliato. Facendo perfino propri gli stilemi espressivi del periodo storico che racconta.
Tanto raffinato e completo è lo sguardo di Eastwood che nel suo dramma quasi si perde la valenza dei contenuti, oscurati da una forma di sublime purezza e immaterialità. Tanto che sembra di assistere alla migliore riproposizione del cinema gangster anni '30, quando non all'espressionismo tedesco. E si finisce per dimenticare il nostro tempo e il nostro cinema di fronte a un dramma duro, lirico e dal fuori campo infinito. Eastwood racconta il tempo che fu senza manierismi o intellettualismi di sorta, con la sensibilità consapevole dell'ultimo rappresentante di un cinema che non esiste più. Ma solo nelle determinazioni temporali.