Recensione Yemen's Reluctant Revolutionary (2011)

Per il suo documentario sulla rivoluzione yemenita, McAllister sceglie un protagonista d'eccezione: un uomo normale, reticente al cambiamento, ma che sarà costretto a capire in modo fin troppo crudo la necessità di dare una svolta alla realtà del proprio Paese.

Alla fine, la rivoluzione

Rivoluzione. Una parola che evoca la necessità impellente di un cambiamento, la fine di un regime, la restaurazione della libertà, la speranza in un domani più equo e vivibile. Una parola che evoca giovani eroi, a volte feriti, a volte sporchi, ma sempre senza macchia e senza paura, pieni di ideali, di sogni, che si dicono pronti a sacrificarsi, e magari lo sono anche, ma che, in un modo o nell'altro, vinceranno: sul campo di battaglia o, comunque, con la forza delle loro idee. La rivoluzione è così poetica solo se è vista da lontano, però. Perché quando ci sei dentro, a dominarti è la paura, del governo certo, ma anche di essere coinvolto negli scontri tra i manifestanti, e poi la diffidenza, perché le novità, anche se sulla carta positive, non sono mai del tutto ben accette, e poi la rabbia, perché vorresti solo una vita normale, fare il tuo lavoro, provvedere alla tua famiglia, senza doverti sobbarcare i problemi di uno Stato che, evidentemente, a te non ha mai pensato.

Sono questi, appunto, i sentimenti che animano Kais all'inizio del suo viaggio con il regista Sean McAllister tra le montagne yemenite. Kais è una guida turistica, ma di turismo ultimamente ce n'è davvero poco in Yemen: colpa delle contestazioni al corrotto presidente, delle continue manifestazioni in cui gli viene chiesto a gran voce di dimettersi, del timore che la protesta finisca ancora una volta in un bagno di sangue. E se vogliamo dirla tutta, a Kais non interesserebbe nemmeno fare la guida turistica: avrebbe voluto tenersi il suo albergo, che è stato costretto a chiudere perché strozzato dai debiti, ancora una volta per colpa del dissennato operato del governo. Ma, nonostante tutto, Kais non vuole che il presidente se ne vada. Non vuole la rivoluzione. Mentre accompagna Sean per i campi allestiti dai dimostranti nella capitale Sana'a, è evidente tutta la sua disillusione: gli ideali pacifici dei dimostranti gli rimangono indifferenti, gli sembrano un inutile spreco di energie, quando basterebbe accontentarsi di un paio di concessioni da parte del governo, andare tutti a casa prima che qualcuno si faccia male, e riprendere la propria esistenza.

Lontano dall'essere un osservatore neutro, McAllister pungola il proprio protagonista con domande sempre più scomode, obbligandolo a riflettere sulle contraddizioni del proprio pensiero: è infelice, non sa come mantenere la propria famiglia, ma ciononostante non crede che valga la pena di tentare un cambiamento, perché in fondo non si sta poi così male. Si sta male eccome, invece: e anche lo stesso Kais dovrà rendersene conto, all'indomani della reazione armata del governo alla protesta pacifica, in cui decine di dimostranti rimarranno feriti o, peggio, uccisi. Da quel momento, è come se si squarciasse il velo che si era testardamente tenuto davanti agli occhi, e abbracciasse con tutta l'energia e la forza che prima gli mancavano la causa della rivoluzione.

La forza di questo Yemen's Reluctant Revolutionary sta proprio nel suo essere in grado di testimoniare questa evoluzione, di cambiare di registro come cambia di registro la vita di Kais: da una livorosa, ma pacata rassegnazione, velata di nostalgia per un passato troppo recente, a tutta l'evidenza della tragedia. McAllister è stato in grado di entrare nella quotidianità di un Paese che sa dove vuole andare ma non ha sempre il coraggio di farlo, di vivere la vita di uno qualunque dei suoi abitanti, senza grandi ambizioni e senza grandi ideali se non quelli di provvedere a se stesso e alle persone che ama, e di portarvi un motivo per cambiare. Non sono tanto le riflessioni tra due quasi amici, nelle lunghe serate passate a masticare khat, a convincere Kais che se Sean è lì qualcosa di importante da vedere c'è: è la necessità di Sean di rendersi conto di come realmente vanno le cose, di raccontare il momento, a provocare l'epifania di Kais. Se Sean non l'avesse portato al campo dei dimostranti, non lo avesse messo, suo malgrado, di fronte al sangue di chi era morto per la libertà, Kais non avrebbe mai capito la verità: a noi è stata data l'occasione per fare lo stesso.

Movieplayer.it

3.0/5