La saga di Lost Bullet potrebbe non dirvi nulla, ma per i francesi rappresenta il loro Die Hard, qualcosa che in Italia - purtroppo - continua tutt'ora a latitare. Il ritorno al genere nel Bel Paese ha prodotto risultati interessanti per quanto riguarda l'action solo quando mitigato e asservito ad altro: pensiamo ad esempio al cinema di Gabriele Mainetti o anche ai recenti La Bestia e Il mio nome è vendetta con Alessandro Gassman, tra revenge movie e crime story. Sfruttarlo in purezza, invece, è tutt'altra cosa, obiettivo che sembra ancora irraggiungibile dalle nostre parti, mentre già nel 2002 la Francia sfornava un cult d'azione delle dimensioni di The Transporter sotto la guida di Louis Letterier e Luc Besson.
Ecco, Lost Bullet è una sorta di ricercata involuzione più nazional-popolare e meno disinvolta di quel modo di concepire l'azione, che infatti è molto più edulcorata dal thriller ma ha come grande protagonista un man of action a tutto tondo come Alban Lenoir, (una vera star in ascesa del genere), il Bruce Willis francofono per eccellenza. Dato il successo dei primi due capitoli della trilogia in patria, Netflix ha deciso di sviluppare proprio con Lenoir e il regista Morgan S. Dalibert (già direttore della fotografia del primo Lost Bullet) questo AKA, interessante crime thriller sui generis già disponibile in piattaforma e, anzi, persino primo nella Top 10 film di Netflix da più di una settimana. Che la formula superstar + action funzioni davvero?
Nome in codice
Aka rappresenta il classico "also known as", in sostanza l'acronimo per indicare un vero e proprio nome in codice. La mente si proietta subito al mondo dello spionaggio e fa bene. Protagonista della storia è infatti Adam Franco (Lenoir), un agente delle operazioni speciali francesi burbero ed efficiente, conosciuto per essere uno dei migliori sul campo e la persona da chiamare per portare a termine una missione pericolosa. Tipo tosto, Franco, uno di quelli che a mani nude e qualche pistola è in grado di sterminare un intero plotone di terroristi (ben confezionata la sequenza d'apertura, a tal proposito) e per ricucire le poche ferite riportate non necessita che di qualche benda e un paio di punti.
Grugnisce e uccide e avanza senza pietà, motivo che spinge i piani alti delle operazioni speciali a inviarlo sotto copertura in una sindacato criminale per stanare un signore della guerra sudanese (Kevin Layne), principale sospettato di un tremendo attacco terroristico nel cuore di Parigi. Per arrivare al boss deve però scalare i ranghi dell'associazione e fingersi un gangster duro e crudo agli occhi di un affiliato criminale locale, Victor Pastore (Eric Cantona). L'obiettivo è guadagnare la fiducia di Pastore e divenire il suo braccio destro, ma le cose cominciano a complicarsi quando Adam entra nel mirino di Joe Pastore (Noe Chabbat), figlio del gangster che resta ammirato dalle abilità e dalla forza di Franco dopo che quest'ultimo lo salva da un bullo. E scoprire di avere un cuore sotto tutta quell'adamantina montagna di muscoli e asocialità renderà la missione di Adam davvero difficile.
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Impatto zero
La verità è che per quanto punti a mostrare una specifica personalità, un'anima caratteristica nuova e differente, AKA è un thriller assai generico che non riesce a imprimersi nella tua totalità. Qualche parte funziona, soprattutto la mano di un direttore della fotografia al suo debutto solitario dietro la macchina da presa, ma è al cuore che AKA ha un gusto superficiale e un'inventiva cinematografica poco ricercata e invece ispirata a tanti altri grandi film di genere. Possiamo pensare al già citato The Transporter, a The Departed, a The Professional o anche al tedesco Rheingold di Fatih Akin. Alcune sequenze provano a prendere spunto dalle dinamiche action americane di John Wick o Atomica Bionda, senza però centrare quasi mai il risultato, decisamente più povere o confusionarie e soprattutto nella narrativa incapaci di strutturare un appassionante, convincente o invitante sottobosco criminale.
Lenoir è invece una maschera perfetta, espressiva e fisica, del macho man contemporaneo, tutto muscoli e pugni insanguinati ma con un filo spinato da districare attorno a un'anima in realtà profondamente abusata dalla vita e costretta a sopravvivere con le proprie forze. Lo aveva già dimostrato in Lost Bullet, lo conferma in AKA. Purtroppo non basta a sopperire alle tante altre mancanze di scrittura, specie relative ai personaggi base o ai cattivi, pensando anche alla prestazione non sempre convincente di Cantona, che in un paio di occasioni regala comunque qualche soddisfazione. Non sono del tutto chiare nemmeno le tematiche politiche dedicate alla corruzione, lussuria e violenza, non in un titolo che si presenta palesemente come un action-thriller a tutto tondo senza particolari ambizioni artistiche, culturali o espressive. Questo di fatto lo rende anche meno coinvolgente e divertente di quanto avrebbe in effetti potuto essere, perché puntare all'elevated action non è cosa per molti, sicuramente non per chi già nel titolo preannuncia di fingersi altro, rivelandosi alla fine un more of the same funzionale ma senza spina dorsale.
Conclusioni
In conclusione, AKA è un nome in codice per delusione, non su tutta la linea ma soprattutto per quanto riguarda l'intreccio della storia, le sue confuse tematiche e una gestione di alcune sequenze d'azione che avrebbero forse meritato più inventiva e ricercatezza. Lenoir si conferma il man of action francofono del momento e regge tra pugni e grugniti il film sulle sue spalle, che per quanto larghe e robuste non riescono comunque a resistere a un'eccessiva durata e a una cura per lo più buona senza eccessi né passione.
Perché ci piace
- L'impressionante fisicità di Alban Lenoir.
- La scena d'apertura.
- Alcune dinamiche interne alla famiglia Pastore.
Cosa non va
- Resta un more of the same senza guizzi.
- Alcune sequenze d'azione sono davvero sprecate.
- Eric Cantona non convince.