ACAB, recensione: se un'ottima serie pop mette in discussione la forza (il)legittima

Una storia che torna attuale, illuminando l'infuocato confine tra la giustizia e l'abuso. Una serie spettacolare, elegante, coinvolgente. Grande cast (da Giannini a Bellè) e grande regia (Michele Alhaique). In streaming su Netflix.

I protagonisti di ACAB

"Questa è Roma. E Roma non arretra". Potrebbe essere uno slogan particolarmente efficace della Curva Sud, e invece è la trovata dialettica, scandita dalla voce roca di Marco Giallini, che in un sol colpo riassume tono e peculiarità di ACAB, la serie tratta dall'opera di Carlo Bonini e, sulla stessa falsariga dell'operazione Suburra, ispirata all'omonimo film di Stefano Sollima (un film nevralgico per argomentazione, all'epoca marcatamente contestato).

Acab La Serie Scena Netflix
Adriano Giannini in ACAB

Insomma Netflix ci riprova, scegliendo con intelligenza un'opera di forte impatto, portando in scena un'altra vicenda che, per colori e toni, vive di contesto e di atmosfera, risultando oggettivamente affascinante, e di sicuro acchiappo (magari fosse sempre così). Ad adattare il soggetto, su produzione Cattleya, Filippo Gravino, Carlo Bonini, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini, con la regia dei sei episodi affidata a Michele Alhaique, regista che ben conosce i tempi e i modi di una certa serialità (basti pensare all'ottimo lavoro fatto con Non uccidere, Romulus e, soprattutto, con Bang Bang Baby), muovendo le immagini secondo una prospettiva potente e immersiva (vibrando anche grazie all'incessante colonna sonora dei Mokadelic). L'esempio perfetto: la spettacolare sequenza d'apertura, che sembra uscita da un film di guerra.

ACAB, oltre la divisa di un celerino

Se il lungometraggio di Sollima aveva un pretesto reale per accendere l'azione (la morte di Filippo Raciti), i tre "celerini bastardi" (come li chiama Bonini nel romanzo) di ACAB - La serie sono invece mossi dalla pura finzione narrativa, pur agganciati ad una cronaca che ben conosciamo. Al centro dello show, la squadra Mobile di Roma, che resta orfana del capo, rimasto gravemente ferito in Val di Susa durante gli scontri con i No Tav.

Al suo posto, arriva il nuovo comandante, Michele (Adriano Giannini), riformista e moderato, ben poco avvezzo alla mentalità arcaica dei tre poliziotti protagonisti: Mazinga (Marco Giallini), Marta (Valentina Bellè) e Salvatore (Pierluigi Gigante). Loro sono una famiglia, una tribù, la legione invincibile e il manganello della vecchia scuola che avanza, picchia forte e "nun arretra", sopperendo i nevralgici vuoti delle loro vite senza divisa (e sarà l'aspetto poi più sviluppato dello show). Ma, ci dice la serie Netflix, è in arrivo un tempo in cui tutto sta per cambiare e che, tra violenza, appartenenza e senso del dovere, dovrà scontrarsi - letteralmente - con una nuova epoca che riflette i tumulti di un Paese drammaticamente spaccato, e poco accondiscendente verso le istituzioni.

ACAB, dietro le quinte della serie con i protagonisti: "Una storia che vive di conflittualià"

Tra ordine e caos

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Marco Giallini e Valentina Bellè in scena

Del resto, com'è possibile essere accondiscendenti, se c'è una totale mancanza di responsabilità da parte dello Stato, generando quel caos - che la serie, in parte, cavalca in modo intelligente - meschinamente sfruttato per scopi politici, populisti e demagogici? Pur essendo intellettualmente onesta, decisamente trascinante, e pensata per essere un prodotto di fantasia, la serie di ACAB arriva - tanto per cambiare - in un momento centrale, dimostrando di nuovo l'attualità della storia: la "tolleranza zero" predicata dallo Stato non può essere applicata solo e soltanto verso le frange facinorose e più violente, bensì deve essere applicata verso coloro che sfruttano la divisa in modo ignobile, in quanto "la ferma condanna" in un paese civile non dovrebbe aver nessuna distinzione di colore politico (e lo Stato, che detiene il controllo delle Forze dell'Ordine, dovrebbe preservare il giusto utilizzo della forza stessa).

Un tema che nella serie mette in contrasto e in conflitto l'ordine e il caos, sfruttando gli archetipi del genere per affrontare (c'è il thriller e c'è il dramma), con estremo senso narrativo (e forse senso civile?), la società contestualizzata in un microcosmo che ha formule visive e teoriche ben precise, senza perdere di vista l'intimità dei personaggi (avvicinandoli al pubblico). In ACAB abbiamo trovato la cura della scena in accordo con uno sguardo moderno, e poi l'anti-schematicità dei personaggi (in particolar modo ci riferiamo ai personaggi di Giannini e Bellè), avallati da una qualità di scrittura che, bisogna dirlo, latitava nelle ultime produzioni local targate Netflix, troppo tarate e approssimate, tanto da farci considerare ACAB una delle migliori (se non la migliore) produzione seriale italiana della piattaforma.

Acab La Serie
Sul campo di battaglia

Dall'altra parte, se lo spirito pop della serie è, comunque, preponderante, diventa ancora più interessante confrontare il materiale narrativo con la stretta attualità (sottolineando quanto la cronaca avalli opere come ACAB): puntata dopo puntata, governate da un certo sentimento di inquietudine e orrore, viene fuori una società ormai capace di andare oltre il senso di giustizia. C'è una estremizzazione contemporanea che ha reso allora urgente, tredici anni dopo il film di Sollima, un nuovo spaccato (romanzato) del reparto mobile di Roma. Come? mettendo a ferro e fuoco il confine tra l'uso legittimo e illegittimo della forza.

Conclusioni

Elegante, spettacolare, centrata per toni e argomenti. L'universo di ACAB torna in forma seriale calcando un'attualità tornata a riempire le pagine di giornale, spingendo al massimo la sceneggiatura verso una conflittualità che rende il racconto compiuto e coinvolgente. Forse, la miglior serie italiana di Netflix da anni a questa parte.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
N/D

Perché ci piace

  • Ottima regia di Michele Alhaique.
  • Ottimo cast, su tutti Giannini e Bellè.
  • L'attualità della storia.
  • Le svolte, non scontate.

Cosa non va

  • Potrebbe esserci un sovraccarico narrativo, ma comunque risulta funzionale.