La sedicenne Adèle, durante la festa per il suo compleanno, balla in giardino fra decine di coetanei di diverse etnie; gli occhi della ragazza tendono verso il basso e, nonostante un accenno di sorriso, lasciano trapelare un ineffabile senso di malinconia. Nella sequenza successiva, la melodia è quella di I Follow Rivers di Lykke Li: stavolta Adèle alza lo sguardo e si abbandona completamente al ritmo della musica. La macchina da presa si immerge fra i corpi in movimento dei suoi amici, avvicinandosi quanto più possibile a quel volto finalmente luminoso e sorridente.
In neppure due minuti, ci viene restituito un saggio molto preciso su cosa renda tanto incredibilmente speciale il cinema di Abdellatif Kechiche: la sua capacità di entrare in contatto con l'universo dell'adolescenza e della giovinezza; di catturarne la complessità e la contraddittorietà degli stati d'animo; di trasmettere al contempo, con una spontaneità priva di didascalismi, la fragilità di un individuo faccia a faccia con un mondo troppo vasto per essere compreso davvero, ma soprattutto l'entusiasmo per ciò che quel mondo ha da offrire... a partire da una semplice danza su un prato, circondati da palloncini colorati.
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Da Tunisi a Cannes: la parabola di Kechiche, il cantore della gioventù
Nato a Tunisi nel 1960, ma vissuto a Nizza dall'età di sei anni, Abdellatif Kechiche è cresciuto in quell'ambiente multietnico e multiculturale, non esente da fenomeni di discriminazione e di razzismo, che ritrarrà in seguito nei suoi film. La passione per il teatro e la recitazione lo porta ad approdare al cinema, dove nel 1987 affianca da co-protagonista Sandrine Bonnaire ne Les innocents di André Téchiné. La difficile esperienza di sentirsi un outsider in terra straniera lo spinge nel 2000, per il suo primo cimento dietro la macchina da presa, a raccontare le peripezie di Jallel (Sami Bouajila), un giovane immigrato nordafricano in Francia. Il film, Tutta colpa di Voltaire, dà subito un primo assaggio del suo talento di narratore, un talento confermato appieno nel 2003 con La schivata: la cronaca delle giornate di un gruppo di adolescenti di una banlieue, impegnati in un allestimento scolastico della commedia Il gioco dell'amore e del caso di Pierre de Marivaux.
La schivata vince quattro premi César, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura, e viene seguito quattro anni più tardi da Cous cous, che al Festival di Venezia 2007 riceve il Premio della Giuria. Lo scenario, questa volta, è una cittadina costiera in cui il maghrebino Slimane (Habib Boufares), con l'aiuto della propria famiglia, decide di aprire un ristorante specializzato in cous cous; la pellicola - intitolata in originale La graine et le mulet - registra un milione di spettatori in patria, si aggiudica quattro César, incluso il premio come miglior film, e consacra il suo regista a livello internazionale. Non riscuoterà altrettanta fortuna, nel 2010, Venere nera, un progetto atipico per Kechiche: la reale e tragica vicenda, nella Londra agli inizi del diciannovesimo secolo, di Saartjie Baartman (Yahima Torrès), una ragazza africana passata alla storia come la cosiddetta Venere ottentotta.
Passano altri tre anni, e al Festival di Cannes 2013 Abdellatif Kechiche conquista a furor di popolo la Palma d'Oro grazie a quello che sarà definito il suo capolavoro: La vita di Adèle, il racconto di formazione dell'adolescente Adèle (Adèle Exarchopoulos), la quale si confronta per la prima volta con la propria omosessualità e con i tumulti del cuore mediante il rapporto con Emma (Léa Seydoux), artista dai capelli azzurri. E l'intimo ritratto tracciato ne La vita di Adèle può essere accostato, almeno in parte, a quello dello studente Amin (Shain Boumedine), che si accinge a trascorrere un'estate spensierata sulle coste dell'Occitania, nel suo paese natale, in Mektoub, My Love: Canto Uno: l'ultimo, meraviglioso film di un regista che, come nessun altro oggi, riesce a illustrare sullo schermo le gioie e i turbamenti della giovinezza. In attesa del Canto Due (già girato e attualmente in fase di montaggio) di questo dittico basato sull'autobiografia dello scrittore François Bégaudeau, proviamo ad esplorare gli ingredienti principali del cinema di Kechiche, quelli che hanno contribuito a renderlo uno degli autori più importanti del nuovo millennio...
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Rifugi poetici: individuo e società
La Francia come un grande melting pot, la commistione fra popoli e culture e le difficoltà nell'appartenere a una minoranza in una nazione che non sempre riconosce i principi di Liberté, Egalité e Fraternité: pur non essendosi mai occupato di un cinema di impegno socio-politico stricto sensu, Abdellatif Kechiche ha messo spesso al centro dei propri film personaggi alle prese con una dimensione sociale non troppo favorevole o apertamente ostile. I casi più estremi, soprattutto dal punto di vista dei rapporti di forza e di debolezza fra società e individuo, sono quelli del tunisino Jallel, che in Tutta colpa di Voltaire lotta per costruirsi un presente dignitoso e una prospettiva per il futuro, e la Saartjie Baartman di Venera nera, sottoposta a ogni tipo di umiliazione e di sopruso nella pellicola più feroce e nichilista di Kechiche.
Ma il regista si è dedicato con altrettanta attenzione anche alla convivenza fra diversi gruppi etnici e culturali: basti pensare alla vasta e vivacissima comunità araba in Occitania di Cous cous o alla sua formidabile descrizione della banlieue parigina ne La schivata, in cui il teenager Krimo (Osman Elkharraz), immigrato di seconda generazione nato in una famiglia maghrebina, adopera il teatro di Marivaux nella speranza di arrivare al cuore della graziosa compagna di scuola Lydia (Sara Forestier). E il teatro, così come la letteratura, sono i privilegiati "rifugi poetici" (per parafrasare il titolo inglese di Tutta colpa di Voltaire, Poetical Refugee) di quegli individui per i quali l'arte può costituire una chiave di lettura per decifrare se stessi e il mondo circostante: Marivaux, per esempio, ritornerà ne La vita di Adèle, con la protagonista immersa nella lettura del romanzo La vie de Marianne.
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L'azzurro è il colore più caldo: educazioni sentimentali
Come già rilevato, la dimensione del desiderio e dei sentimenti è uno degli aspetti ricorrenti nel cinema di Abdellatif Kechiche, perlomeno dalla sua opera seconda. Ne La schivata, l'interesse al quadro sociale e antropologico si fonde con la girandola di attrazioni incrociate fra il timido Krimo, Lydia, prima attrice dell'allestimento del testo di Marivaux, e l'ex fidanzata di Krimo, Magalie (Aurélie Ganito): un'educazione sentimentale in cui la realtà scolastica e adolescenziale entra in corto circuito con la finzione teatrale (a Krimo e Lydia sono affidati infatti i ruoli di Lisette e Arlecchino sul palcoscenico). Con La vita di Adèle, il Bildungsroman della protagonista passa soprattutto attraverso la presa di coscienza della propria omosessualità e la passione ricambiata per Emma; e se da un lato Kechiche mette in scena senza filtri il carattere viscerale e totalizzante dell'amore fra le due donne (incluse le lunghe e dettagliate scene di sesso), dall'altro lo sguardo del film si estende ben oltre, tracciando un percorso esperienziale fatto di erotismo ma anche di aspettative e di delusioni, di maturità e di rabbia, di tenerezza e di solitudine.
Ben più peculiare, nonché ancora in divenire, è l'educazione sentimentale di Amin. In un film come Mektoub, My Love: Canto Uno, interamente costruito attorno ad effimeri flirt estivi e ad attrazioni talvolta manifeste, in altri casi silenziose e frustrate, il giovane studente con ambizioni da fotografo sceglie di porsi in una condizione di 'passività': i suoi desideri rimangono inespressi, sublimati nell'osservazione a distanza (la fotografia, appunto) e nel rimpianto, come accade nello splendido e malinconico finale sulla spiaggia, alla luce del tramonto.
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I giochi dell'amore e del caso: più vero della realtà
Al di là dei suoi elementi tematici, c'è però un'altra virtù in grado di rendere il cinema di Abdellatif Kechiche tanto poderoso e coinvolgente, in grado di conferirgli un'unicità tale da renderlo uno dei registi irrinunciabili della nostra epoca: il suo straordinario realismo. Nella Poetica di Aristotele, la mimesi è definita come uno dei fondamenti della tragedia, in quanto l'imitazione "di azioni e di vita" risulta indispensabile al godimento nella fruzione dell'arte, e quindi al raggiungimento della catarsi. Ecco, oggi non esiste forse alcun altro cineasta capace di proporci un'imitazione della realtà tanto completa e convincente quanto riesce a fare Kechiche, fin dai tempi de La schivata e Cous cous: e il risultato, durante la visione dei suoi film, è un'esperienza assolutamente immersiva, favorita dal naturalismo della recitazione di attori spesso emergenti o addirittura non professionisti.
È il segreto dell'intrinseca bellezza del cinema di Kechiche, e in particolare di film quali La vita di Adèle o quest'ultima, imperdibile fatica: per due o tre ore, il regista ci conduce in un microcosmo del quale finiamo per sentirci parte integrante; azzera le barriere dell'incredulità per farci provare in tutto e per tutto le sensazioni, le emozioni e i palpiti dei suoi personaggi. E nel mostrarci "la vita al lavoro" (rovesciando il celebre assunto di Jean Cocteau), Kechiche ci ricorda che quelle sensazioni, quelle emozioni e quei palpiti rappresentati sul grande schermo appartengono anche a ciascuno di noi: al nostro vissuto, ai nostri sogni ancora da realizzare o alla nostra personale galleria di rimpianti.