Precisamente settant'anni fa, l'8 dicembre del 1949, avveniva la première al Radio City Music Hall di New York di uno dei film che rivoluzionarono la storia del cinema mondiale: Un giorno a New York. Primo film diretto dal duo Stanley Donen e Gene Kelly, questo lungometraggio della MGM ha raccontato al mondo la storia dei tre marinai, Gabey, Chip e Ozzie (interpretati rispettivamente da Gene Kelly, Frank Sinatra e Jules Minshin) che durante la loro licenza di 24 ore a New York vanno alla ricerca di ragazze di cui innamorarsi.
Un giorno a New York segna un momento di svolta per il musical, che si libera dai propri limiti per andare ad assaporare la vita quotidiana dell'uomo e della donna americani, sfruttando tutto ciò di cui può disporre un ambiente reale, abbandonando l'innocenza e il puro entertainment, espressione di una realtà che diventa sogno e non il contrario. In occasione dei primi settant'anni di Un giorno a New York, abbiamo colto l'occasione per fare il punto e capire come e perché questo film abbia contribuito alla rivoluzione di un genere e quali siano le sue caratteristiche fondamentali.
Scene da musical: 30 film e momenti indimenticabili - parte 1
Dagli studios alle strade
Quando si parla di un film come Un giorno a New York bisogna considerare alcuni aspetti importanti, tra cui il periodo storico in cui è stato realizzato: parliamo di un film che è stato girato alla fine degli anni '40, più precisamente nel 1949, anni in cui il musical entrava in una fase di transizione. Infatti, se negli anni '30 questo genere si proponeva come fonte di puro spettacolo, in grado di mettere in scena il sogno e la dimensione onirica del reale in un periodo immediatamente successivo alla Grande Depressione, negli anni quaranta comincia a venire meno questa esigenza e il musical si adegua di conseguenza.
Non a caso, infatti, comincia ad essere data più attenzione alla vita quotidiana dell'uomo americano, alla realtà che diventa sogno e non più al sogno che diventa realtà. Un periodo che ha visto la realizzazione di film capolavori realizzati da registi come Vincente Minnelli e il duo Stanley Donen-Gene Kelly. Tuttavia, se il primo ha continuato a proseguire sulla strada delle dimensioni oniriche, dei piani sequenza, della danza messa a servizio della macchina da presa (basti citare i casi eclatanti di Spettacolo di varietà, Un americano a Parigi e Brigadoon), i secondi hanno messo la macchina da presa a servizio della danza e, soprattutto grazie all'occhio clinico di Donen, hanno utilizzando tutto quello che può offrire un ambiente reale o una sua ricostruzione in studio (ad esempio, il ballo sfrenato di Donald O'Connor e la danza sulle note di You Were Meant For Me in Cantando sotto la pioggia).
È sulla base di queste premesse che viene realizzato Un giorno a New York, un musical che comincia a liberarsi dai vincoli restrittivi, dalle logiche armoniose e dolci che avevano caratterizzato un duo come Fred Astaire e Ginger Rogers, abbandonando i miti della purezza e dell'innocenza e restituendo allo spettatore il fatto che ogni cosa è ciò che sembra. Un film che, pur non essendo realizzato completamente in ambienti reali, ha tagliato il cordone ombelicale con la tradizione teatrale da cui è nato, seguendo un sentiero dorato già in parte battuto da Busby Berkeley che, qualche anno prima si era basato sull'entertainment puro ma adeguandolo alla realtà post-depressione dell'epoca. È così che Un giorno a New York esplora il terreno reale, respira un'aria nuova che converte i possibili difetti in pregi, che rende gli impedimenti del mondo reale un punto di forza, che rende la danza materiale e indiavolata importante - e non per questo priva di significati. Un film in cui il realismo e le geometrie che ne fanno parte risultano funzionali, in cui lo spettacolo viene mostrato nel suo comporsi da una corsa all'altra, dalla Statua della Libertà al Museo di storia naturale, dal Rockfeller Center all'Empire State Building.
Scene da musical: 30 film e momenti indimenticabili - parte 2
Collaborazione artistica
Come la maggior parte dei musical americani dell'epoca, anche Un giorno a New York è stato tratto da un omonimo spettacolo teatrale che aveva debuttato cinque anni prima, realizzato da veri e propri artisti di quel settore: basti pensare al trittico composto da un genio indiscusso come Leonard Bernstein, con la regia di George Abbott e con coreografie di Jerome Robbins. Primo film che vede alla regia il duo Gene Kelly-Stanley Donen, si deve la realizzazione di Un giorno a New York al lungimirante Arthur Freed, produttore della MGM, che grazie alla sua Freed Unit ha dato vita a film che hanno fatto la storia del cinema e che hanno rivoluzionato un genere, avvalendosi dello sfarzo che poteva consentire la MGM e della tecnologia e spettacolarità che regalava il Technicolor.
Freed ha scommesso sull'amicizia che legava Kelly a Donen, conosciutisi anni prima sui palcoscenici do Broadway: Donen, assunto prima in qualità di suo assistente coreografo e poi diventato co-creatore di Un giorno a New York, si dedicava agli aspetti strutturali legati al set e alle riprese, mentre Kelly si dedicava alla realizzazione delle coreografie, come fossero un unico corpo. I due, insieme a Freed, sono stati testimoni e protagonisti della trasformazione del musical dagli anni '40, mosso da coreografie vitali ed energiche, agli anni '50, periodo in cui per la prima volta il musical si interroga su sé stesso, diventa metariflessivo, abbandonando definitivamente il puro entertainment.
Scene da musical: 30 film e momenti indimenticabili - parte 3
Il colore dell'irreale
Si è sempre discusso, per quanto riguardano i musical degli anni '40 e '50, di come il colore sia stato sapientemente usato per dare forma alla realtà che diventa sogno. Se Minnelli si è sempre basato, ad esempio, sulla tonalità del rosso, per dare maggior consistenza alla dimensione onirica e anche melodrammatica, tendenzialmente i film diretti dal duo Donen-Kelly (ma anche, ad esempio Sette spose per sette fratelli, diretto dal solo Donen) prediligono colori vivaci, accattivanti, a sostegno della magia di sogno e allo stesso tempo, dimostrazione di come il potere del falso possa dare vita ad un reale irrealizzato. Un modo per prendere il reale, tutti i suoi costrutti per traslarlo in uno spettacolo in realtà infinito, espandibile e senza confini.
E ciò è identificabile solo osservando i vestiti di quelli che, in seguito, diventeranno i sei protagonisti: se i tre marinai continueranno a vestire le classiche casacche bianche, sinonimo di realtà, le tre ragazze newyorkesi indosseranno i colori più semplici e sgargianti, il rosso, giallo e verde, sinonimo di realtà diventata irreale, di quella realtà che diventa sogno (cioè il sogno dei tre marinai di trovare tre ragazze durante il loro giorno di licenza). Un modo di creare simbolismi e costrutti filmici e visivi che sono rimasti nella memoria dello spettatore ma anche, e soprattutto, in quella di numerosi registi che, consapevolmente o meno, hanno riproposto questa stessa simbologia nei film a venire: basti pensare alla danza sui tetti in Sweet Charity e West Side Story, oppure allo svolgimento del brano Someone in the Crowd in La La Land.